- Assolti «perché il fatto non sussiste», ma non ancora in via definitiva. La procura di Milano ha deciso di impugnare la sentenza del Tribunale che nel marzo del 2021 aveva liberato dalle accuse di corruzione internazionale i protagonisti del processo Eni-Shell Nigeria con formula piena.
- Anche la Repubblica della Nigeria ha fatto appello. Era presente come parte civile nel primo grado di giudizio e non vuole rinunciare alle sue pretese anche in questo secondo tempo di una delle più grandi partite giudiziarie mai disputate a Milano.
- In 123 pagine il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ha ripercorso con una certa minuziosità la vicenda processuale. Traspare l'orgoglio di voler dimostrare di aver fatto un serio lavoro di ricostruzione dei fatti nigeriani insieme al collega Sergio Spadaro, che è stato nominato procuratore europeo lo scorso maggio e che non può più interessarsi a questo procedimento.
Assolti «perché il fatto non sussiste», ma non ancora in via definitiva. La procura di Milano ha deciso di impugnare la sentenza del Tribunale che nel marzo del 2021 aveva liberato dalle accuse di corruzione internazionale i protagonisti del processo Eni-Shell Nigeria con formula piena, trai i quali l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, nonché Dan Etete, uno dei politici più influenti del grande paese della West Africa. Anche la Repubblica della Nigeria ha fatto appello. Era presente come parte civile nel primo grado di giudizio e non vuole rinunciare alle sue pretese anche in questo secondo tempo di una delle più grandi partite giudiziarie mai disputate a Milano.
La vicenda, in estrema sintesi, ruota intorno alla compravendita dei diritti di esplorazione del campo petrolifero Opl 245 nel 2011, per i quali le due aziende avrebbero pagato alla Malabu di Dan Etete 1.092 miliardi di dollari che sarebbero stati, in realtà, un’enorme tangente pagata ad alcuni alti funzionari pubblici africani tra i quali Mohammed Bello Adoke, ex ministro della Giustizia.
In 123 pagine il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ha ripercorso con una certa minuziosità la vicenda processuale così come era stata rassegnata nelle motivazioni dell'assoluzione dal collegio del tribunale presieduto da Marco Tremolada (giudizi a latere Mauro Gallina e Alberto Carboni), provando a smontarle con certo vigore per chiedere la condanna di tutti e quindici gli imputati, tredici persone fisiche e le sue società, alla Corte d'appello che dovrà pronunciarsi.
Logico aspettarselo: dopo l'assoluzione patita in primo grado il magistrato d'origine siciliana è finito al centro di un terremoto giudiziario innescato dal collega Paolo Storari, con la diffusione dei verbali secretati sulla presunta «Loggia Ungheria» redatti dall'ex avvocato Eni Paolo Amara, ed è ora indagato dalla procura di Brescia per rifiuto d'atto d'ufficio sulle dichiarazioni proprio del suo “avversario” togato. Nelle pagine del suo appello traspare l'orgoglio di voler dimostrare di aver fatto un serio lavoro di ricostruzione dei fatti nigeriani insieme al collega Sergio Spadaro, che è stato nominato procuratore europeo lo scorso maggio e che non può più interessarsi a questo procedimento.
Il video
Per entrare nel vivo della querelle procura-tribunale bisogna arrivare a pagina 72 dell'atto, quando viene introdotto il tema di un video diventato famoso per chi si occupa di queste vicende. Un video girato nel 2014 da Piero Amara e nel quale compare, tra gli altri, anche l'imputato e grande accusatore dei vertici Eni Vincenzo Armanna: allontanato pochi mesi prima dalla società minacciava di far cadere una «valanga di merda» sui manager del Cane a sei zampe se fosse stato ostacolato in alcuni affari nigeriani.
Secondo i giudici quel video sarebbe dovuto entrare nel processo per dimostrare l'inaffidabilità di Armanna e delle sue ricostruzioni fatte in aula. Averlo fatto solo dopo una precisa richiesta di un difensore avrebbe negato alle difese Eni la possibilità di cautelarsi e l'accusa si sarebbe squalificata per mero interesse di parte a tutto svantaggio degli imputati. Questo video è stato anche molto strumentalizzato nella successiva guerra in procura, tanto da portare De Pasquale a ricostruire la vicenda portando elementi che potrebbero ribaltare il racconto delle cose.
Secondo il magistrato il video era già nella disponibilità di Eni e un audit interno commissionato ai consulenti di Kpmg dalla società lo aveva già fatto emergere nel settembre del 2018, ovvero prima che Armanna fosse interrogato in aula. Quel documento, scrive il pm, non era al contrario in possesso dell'accusa perché allegato a un'altra indagine – il cosiddetto «complotto» Eni per depistare i pm di Milano –, ma Eni che lo aveva nei propri cassetti decise di non depositarlo mai al processo, salvo poi lamentarsi che l'accusa non l'aveva fatto tramite uno dei legali dei difensori, cui si erano accodati altri avvocati.
La verità processuale andrebbe quindi ribaltata, è la tesi di De Pasquale, anche in relazione al rifiuto del tribunale di sentire come testimone l'avvocato Amara, tirato in ballo da Armanna nella sua deposizione del 2019. Amara, tra fine 2019 e 2020 aveva iniziato a parlare ai pm di Milano che lo indagano per il complotto facendo tra l'altro anche i nomi della loggia Ungheria. Per De Pasquale la sua testimonianza avrebbe potuto aiutare la corte a comprendere l'esistenza anche di un tentativo di depistaggio delle indagini nigeriane, ma non fu mai sentito e questo fu un errore.
Anche l'assoluzione di Claudio Descalzi passa sotto il vaglio critico del pm, che rigetta le tesi del tribunale. Il nodo focale sono gli incontri fatti dall'attuale numero uno della società italiana, al tempo direttore generale della divisione Exploration & production, con il presidente nigeriano del tempo Goodluck Johnatan, che chiese espressamente al manager italiano di far fuori dalle trattative l'intermediario Eni Emeka Obi (assolto in appello a Milano per questi fatti dopo una condanna in primo grado). Colloquio ammesso dallo stesso Descalzi durante le indagini ma «negato nella sostanza dal tribunale» scrive l'inquirente. Il tribunale ha escluso, poi, che Descalzi fosse a conoscenza dei pagamenti illeciti ai politici nigeriani. Cosa che, al contrario, per De Pasquale sarebbe provata da documentazione in atti.
Una delle maggiori contestazioni della sentenza che fa invece la parte civile Nigeria riguarda l'assunto del Tribunale che la trattativa con la società Malabu di Dan Etete per il campo petrolifero fosse stata legittima e trasparente. Cosa smentita dal fatto che Etete, già condannato per riciclaggio in Francia, non aveva una reputazione tale da consentire di sedersi al tavolo con lui.
Non resta che attendere, adesso, la fissazione dell'udienza per capire cosa succederà. In appello sono stati già giudicati due intermediari di questo affare, Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi. Assolti dopo la condanna in primo grado su richiesta del procuratore generale Celestina Gravina, che ha parlato anche di «spreco di risorse» per questa inchiesta. De Pasquale chiederà di poter discutere lui questa causa anche in appello, ma il procuratore generale Francesca Nanni potrebbe anche rifiutargli quest'applicazione, per dare in mano il processo sempre alla Gravina. Lo farà?
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