Paolo Vineis, epidemiologo all’Imperial College di Londra e vicepresidente del Consiglio superiore di sanità spiega a Domani le differenze tra prima e seconda ondata, quello che avremmo potuto fare per prepararci e quello che si è rivelato impossibile da realizzare
- Vineis è uno dei più celebri epidemiologi italiani, un esperto di salute pubblica e del rapporto tra pandemie e globalizzazione
- Oggi spiega che siamo molto più preparati e informati sulla pandemia, ospedali e Rsa in particolare sono molto più protetti
- Ma qualcosa di più si sarebbe potuto fare, soprattutto nello studio di come si trasmette il virus e di come ci si può proteggere
«Lavoriamo non nell’incertezza, ma nella totale incertezza». Paolo Vineis è uno dei più celebri epidemiologi italiani. Professore all’Imperial College di Londra, vicepresidente del Consiglio superiore di sanità e consulente della regione Piemonte, è abituato a lavorare con i tempi lunghi delle ricerche mediche, come quelli degli studi sulla cancerogenità delle sostanze chimiche di cui si è a lungo occupato, che consentono di ottenere dati solidi sui quali i governi possono agire in modo informato. Oggi invece, di fronte ai tempi travolgenti di una pandemia senza precedenti, dice che siamo costretti a muoverci a tentoni, con poche informazioni su ciò che funziona contro questo virus e ciò che invece è inutile. In parte, spiega, questo buio informativo è causato dalla velocità con cui si muove la malattia. Ma sull’analisi dei dati e dei rischi e sulla capacità di mobilitare risorse umane per tracciare l’epidemia, qualcosa di più si sarebbe potuto fare.
Quali sono le differenze tra la prima e questa seconda ondata?
Non si può assolutamente dire che il virus sia meno virulento, ma penso che non ci ritroveremo in situazioni simili a quelle di marzo. Tutti, o quasi, siamo più consapevoli del pericolo del virus, gli anziani si proteggono di più, i medici sono più allertati, anche quelli di medicina generale. È migliorata la capacità di trattare a domicilio e sono migliorate le terapie. Non ci sarà più, mi auguro, l’epidemia di decessi che abbiamo visto nelle Rsa. Adesso il numero di ricoverati nelle terapie intensive è decisamente inferiore rispetto alla prima ondata, anche se cresce rapidamente. In Piemonte, ad esempio, ogni giorno ci sono circa 50-60 pazienti in terapia intensiva, con un incremento di sette, otto al giorno. Sono numeri che cominciano ad essere preoccupanti.
Cosa pensa delle recenti misure adottate dal governo per contenere l’epidemia?
In questa situazione, quello che diciamo o facciamo oggi potrebbe finire smentito dai dati domani. La mia impressione è che la tendenza del governo, ma non solo, sia quella di muoversi seguendo il buon senso, ma senza disporre di solide prove scientifiche. E le prove mancano perché gli studi in medicina richiedono tempo, ma anche perché non le abbiamo cercate. Il lockdown generale spero non sia una delle opzioni sul tavolo, ma d’altro canto dubito di quelli che pretendono di avere soluzioni alternative semplici e rapide. La scelta tra salute ed economia è oggi una scelta oggettivamente difficile, non è solo questione di opinioni.
Di quali informazioni si sente di più la mancanza?
C’erano alcuni punti chiave su cui era fondamentale trovare risposte precocemente tramite sperimentazioni. Ad esempio quali sono le vie di trasmissioni del virus più importanti che richiedono interventi radicali e immediati? Sono i trasporti pubblici, le scuole, gli uffici, i locali ricreativi come bar e ristoranti? Questo comporta buoni sistemi informativi, che al momento mancano, e non solo intuizioni e dati frammentari. È importante capire anche quali sono le misure di contenimento che servono di più, eseguendo test in contesti diversi e su persone che hanno adottato diverse misure di protezione, attraverso un approccio sperimentale. Un tema molto discusso è la app Immuni. Avendo il tempo, si poteva sperimentarla in gruppi di popolazione ed esaminare come reagiva il sistema a valle, per esempio i medici di medicina generale che sono i primi a cui riferirsi in caso di notifica di contatto con un positivo.
Nonostante i tempi lunghi della ricerca medica, sarebbe stato possibile raccogliere più dati negli ultimi mesi?
Quello che stiamo dicendo in molti è che, di fronte alla quasi certezza di una seconda ondata, ci si poteva preparare di più. Ci sono gravi carenze nei sistemi informativi. Questi potrebbero consentire di estrarre informazioni molto utili per prendere decisioni. Scontiamo anche i ritardi nella predisposizione del fascicolo sanitario elettronico e in generale della digitalizzazione in sanità. Il sistema ha rivelato le sue falle, che sono però falle storiche, non facilmente emendabili in pochi mesi.
Quali sono queste falle storiche?
Tutti concordano su un punto: il ridimensionamento dei servizi territoriali di prevenzione è stato un errore. Lo si è scoperto con un evento drammatico come il Covid-19, ma vale in generale per la prevenzione delle malattie, che è spesso più efficace del trattamento terapeutico. Il piano nazionale per la prevenzione attualmente in discussione con le regioni rappresenta un passo in avanti, ma ha ancora meccanismi molto farraginosi e presuppone una organizzazione dei servizi territoriali di prevenzione che esiste solo in parte.
Il problema dei sistemi di prevenzione territoriale è uno di quelli che si sentono citare più spesso, ma cosa significa in concreto la sua debolezza?
Oggi c’è un problema di mobilitazione delle risorse umane in tempi rapidi. In assenza di chiusure forti, come i lockdown più o meno generalizzati, la cosa migliore è bloccare rapidamente i focolai. Appena c’è un caso bisogna tracciare subito i suoi contatti, eseguire i test ed isolare i contagiati. Va fatto in fretta, entro pochissimi giorni, se non ore, perché i focolai si diffondono rapidamente. Se arrivo a testare le persone dopo una settimana o più, il focolaio si è già rapidamente ampliato. Ma per farlo servono personale e risorse, che in Italia non abbiamo e che in questi mesi non sono state allestite. In Vietnam e Giappone hanno seguito questa strada con successo.
Lei lavora tra il Regno Unito e l’Italia, sono stati fatti molti paragoni tra la gestione dell’epidemia in questi due paesi, con molte critiche al primo e molto apprezzamento per il secondo. Cosa pensa di questa comparazione?
In Italia si è scelto di fare un lockdown presto, mentre in Inghilterra questa scelta è stata presa con ritardo. Questo spiega alcune delle differenze geografiche nell’estensione dell’epidemia. Quando valutiamo le prove – per esempio sulla tossicità di una sostanza - , generalmente prevediamo una gradazione delle prove in prove forti, intermedie e deboli. Come abbiamo visto, per molti aspetti dell’epidemia abbiamo prove deboli o scarse, ma sull’efficacia del lockdown invece abbiamo prove forti. In Italia, ad esempio, abbiamo visto chiaramente che ha fatto scendere rapidamente la curva dell’epidemia. Il sud, ad esempio, è stato in buona parte risparmiato nella prima fase grazie alla tempestività del lockdown.
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