Carlo Soricelli conta i morti. «Mi alzo alle 6 di mattina, faccio colazione e comincio a monitorarli. Esco per comprare i giornali, leggo e poi ricomincio a registrarli. Giorno, mese, anno. Nessuno può smentirmi. Io registro tutto».

Carlo ha 75 anni, 4 nipoti, capelli sottili e lunghi, tirati all’indietro. È un pittore e scultore, anche se, mi dice, «senza mezzi economici non ho potuto fare l’artista per professione». Ora è un metalmeccanico in pensione, espone le sue opere in giro per l’Italia ed è l’anima dell’Osservatorio indipendente morti sul lavoro di Bologna, consultato a oggi da più di 3 milioni di persone.

«Tratto il tema delle morti sul lavoro da molti anni. La mia prima opera è del 1980».

Poi arriva il 6 dicembre del 2007, quando a Torino un incendio alla ThyssenKrupp si porta via sette operai. Carlo è commosso di fronte alle tragiche immagini, cerca notizie su internet per sapere quanti morti ci fossero stati quell’anno. «I dati più recenti erano di sei mesi prima, dati dall’Inail». Nessun monitoraggio in tempo reale, niente. Così, con l’aiuto dei figli, «uno laureato in scienze della comunicazione e l’altro che se ne intende di informatica», il primo gennaio del 2008 Soricelli comincia a contare tutti i caduti sul lavoro, uno a uno, in tempo reale.

I dati Inail

«Dopo un anno, la sorpresa. Avevo più morti io dell’Inail e mi sono chiesto come fosse possibile». Mancavano infatti tutta una serie di casistiche che l'Inail non prendeva in considerazione: i lavoratori in nero, poi quelli morti in itinere, cioè vittime di incidenti mentre andavano o tornavano dal lavoro, e altri.

«Sono molti quelli non assicurati», mi dice con la voce che si rompe per lo sdegno. «Il 10 gennaio è morto il primo agricoltore del 2024. L’anno scorso sono stati 142 e in 17 anni di monitoraggio ne sono morti quasi 3.000». Vite che svaniscono senza nemmeno la dignità di diventare statistica.

Carlo, tutti i mesi, manda «i dati aggiornati alle istituzioni, ai ministri, alle commissioni Agricoltura, perfino al presidente della Repubblica». Risposte? Nessuna. Gli chiedo perché, chi ci guadagna a nascondere i morti. Sospira. «La sicurezza sul lavoro muove miliardi e prima di mettere in discussione le sue istituzioni più potenti, come l’Inail, i politici e i giornalisti ci pensano due volte. Pensa ai lavoratori che ogni mese, con la loro busta paga, contribuiscono alle istituzioni che dovrebbero occuparsi di sicurezza sul lavoro: cosa dovrebbero pensare se non vedono risultati?»

Mi confida che, quando legge «i soliti articoli sui morti sul lavoro» e nota la «discrepanza», prova amarezza. «Però adesso sono loro che devono difendersi», mi dice. I dati dell’Osservatorio indipendente, in effetti, sono fonte dei giornali e dei telegiornali nazionali. «Con il seguito dell’Osservatorio ormai ha più credibilità delle statistiche ufficiali», mi dice. E aggiunge: «Per questo qualche presidente della Repubblica mi ha anche scritto per ringraziarmi, ma le istituzioni non accettano mai un confronto».

Non solo numeri

Ma non sono solo numeri. Carlo Soricelli i “suoi” morti li cita uno a uno, racconta di come i familiari siano sopravvissuti alla perdita. «Tra qualche giorno c’è l’udienza per Mattia Battistelli, un ragazzo diplomato con il massimo dei voti che voleva lavorare all’aria aperta ed è morto schiacciato da un ponteggio. Lisa Picozzi è stata una delle prime ingegnere donne in Italia, una ragazza stupenda che giocava a pallavolo ed è morta cadendo dal tetto di un capannone che stava visionando».

La storia più straziante, racconta, è «quella di Carmen Cannistrà. Era al mare, incinta di sette mesi del suo secondo figlio, e il suo compagno Angelo Di Napoli è morto sul lavoro. Ha dovuto fare il test del dna per vedersi riconoscere qualche diritto. Quando ho messo la foto del compagno su una mia installazione esposta, mi ha chiesto se potevo aggiungere anche la foto di suo padre. Era morto anche lui per un incidente sul lavoro. Come fai a non commuoverti?»

I maligni lo accusano di usare i morti sul lavoro per farsi pubblicità. «Ma io, quando ho iniziato a contare i morti, avevo già fatto 70 mostre, avevo 11 opere nel patrimonio culturale dell’Emilia-Romagna».

Gli chiedo se non si stupisca di avere iniziato questa crudele conta che gli affatica il cuore. «Se guardo i risultati, in tanti si sarebbero arresi prima. Ma ero talmente convinto. È la missione che mi è stata affidata nella vita, a parte l’arte», mi dice. «Quando mi è capitato di contare i decessi, mi sono detto: ma dai, sono in pensione, ho tempo, voglio provare. Senza pensare a cosa sarebbe diventato. Non pensavo fosse così importante per me».

La scorza dell’ex sindacalista non l’ha persa. Mi dice che «una volta, in parlamento, almeno c’erano gli operai, che sanno bene cosa significhi lavorare» e che «la maggioranza delle morti avviene in piccole aziende non sindacalizzate». «Questa strage è figlia del grande gioco di appalti e di subappalti, che fa perdere lo sguardo d’insieme». E poi lamenta «la precarizzazione» e quel parlamentare «che faceva l’operaio e ha avuto il coraggio di votare il Jobs Act».

Non si sente ancora realizzato Carlo: «Io sono irrequieto, come dovrebbero essere tutti gli artisti. Non ho speso inutilmente la mia vita. Se mi guardo indietro, mi dico: ho cercato, attraverso l’arte, attraverso il sindacato, attraverso il volontariato, di fare qualcosa per gli altri. Se guardo indietro, con tutti questi morti, mi dico: è stato inutile. Mi sento impotente. Ma quando sento le testimonianze di chi ti apprezza, soprattutto i familiari, allora mi dico: no, vabbè, non è stato inutile. Finché ce la faccio, continuiamo».

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