I femminicidi nel 2023 sono stati 117. L’ultima vittima aveva denunciato l’aggressore per stalking. Il sistema giudiziario non è formato, mentre la collettività non si prende carico del fenomeno
Il femminicidio di Vanessa Ballan è il 117esimo del 2023. Ballan aveva 26 anni ed è stata uccisa il 19 dicembre da Bujar Fandaj, 41enne con cui aveva avuto una relazione, fermato e accusato dell’omicidio avvenuto nella frazione di Spineda di Riese Pio X, in provincia di Treviso.
La donna, che aveva un figlio piccolo ed era incinta di pochi mesi, è stata picchiata al volto e poi colpita da coltellate al torace ed è stata ritrovata dal marito al rientro dal lavoro.
Ballan aveva già denunciato Fandaj per stalking, ma il caso era stato archiviato. «C’erano elementi, forse per un pericolo di attività persecutoria e molesta, ma non per un divieto di avvicinamento», ha affermato il procuratore capo di Treviso, Marco Mantani, sottolineando che dopo una perquisizione eseguita nella sua abitazione non c’erano stati altri episodi e «la valutazione fatta era di non urgenza, cosa purtroppo che si è rivelata infondata». Nella stessa giornata è stata uccisa un’altra donna a Rieti, Iride Casciani, 80 anni, colpita a martellate.
La linea dei femminicidi non cala, viene uccisa una donna ogni tre giorni, nonostante gli strumenti normativi introdotti dal 2019 in poi. «Ritengo che gli strumenti normativi oggi ci siano. L’introduzione del Codice rosso nel 2019 (il pacchetto di norme contro la violenza di genere, ndr) e la recentissima legge contro la violenza sulle donne entrata in vigore il 9 dicembre hanno consentito di fare un grosso passo in avanti», spiega il sostituto procuratore della Procura di Tivoli, Andrea Calice, che si occupa del contrasto alla violenza di genere e contro le donne.
«Spetta a noi operatori», continua Calice, «saperli applicare e utilizzare nella maniera più efficace possibile. Per far ciò è fondamentale una corretta formazione, che oggi forse costituisce ancora un grande “buco nero”».
La formazione
Per intercettare la violenza di genere gli interventi giuridici e nello specifico penali non bastano, essendo un fenomeno culturale complesso e radicato, diffuso in modo trasversale in tutta la società, senza distinzione di classe o provenienza. La difficoltà a riconoscerla è data in primo luogo dalla mancanza di strumenti culturali, si legge nella relazione della Commissione femminicidio del Senato del 2021, «per disinnescare gli stereotipi che ancora vedono i legami familiari fondati sulla naturale sottomissione delle donne a precisi obblighi e ruoli di genere».
Il femminicidio è la punta dell’iceberg, prima ci sono segnali di allarme, i cosiddetti “reati spia”, come atti persecutori, maltrattamenti, violenze sessuali, lesioni o minacce, che spesso non vengono intercettati, come dimostra il caso di Ballan.
Per captare gli atteggiamenti abusanti fisici e psicologici occorre investire sulla formazione non solo dei magistrati ma di tutti gli operatori, in primo luogo «le forze dell’ordine, che sono sul territorio e con le quali nella maggior parte dei casi la persona offesa ha il primo contatto con le istituzioni», spiega Calice.
Per quanto riguarda i magistrati, però, l’offerta formativa appare molto carente, continua la relazione: nei tre anni presi in considerazione, dal 2016 al 2018, la Scuola superiore di magistratura ha organizzato a livello centrale «solo 6 corsi in materia di violenza di genere e domestica». Anche a livello locale: 25 corsi in materia in tre anni organizzati dalle 26 formazioni decentrate, «con un coinvolgimento del 13 per cento della magistratura».
A ciò si aggiunge che il 67 per cento delle partecipanti è donna e il tasso di partecipazione complessivo è dell’8 per cento tra i pubblici ministeri e del 4 tra i giudicanti. Al numero insufficiente di corsi si aggiunge l’assenza di un obbligo di approfondimento per chi si occupa di casi in materia.
L’attenzione sulla formazione dipende poi da procura a procura, così come la volontà di istituire un pool specializzato. La procura di Tivoli, ad esempio, su 10 pm ne ha 5 specializzati in materia e si riuniscono periodicamente. Racconta Calice: «Vengono organizzati incontri con la polizia giudiziaria per costruire e indirizzare un percorso culturale necessario per un’efficace risposta dell’apparato giudiziario alle richieste di tutela delle vittime».
Sulla specializzazione le procure hanno comunque fatto dei passi in avanti, secondo la relazione della Commissione femminicidi, mentre gli uffici giudicanti «hanno ancora gravi carenze».
La giustizia non basta
È diffusa poi tra chi denuncia la decisione di ritirare la querela, un comportamento che per la Commissione viene spesso sottovalutato. Nel 79 per cento dei casi di femminicidio analizzati nella relazione, le donne «avevano dichiarato di temere per la propria vita» o per quella dei figli. Altre avevano deciso di non seguire l’iter processuale perché avevano paura di avere conseguenze sull’affidamento dei bambini.
E proprio le remissioni di querela hanno portato alla chiusura delle indagini e a non adottare provvedimenti cautelari nei confronti dell’indagato, o a tutela della donna. «Sul tema delle archiviazioni ritengo opportuno precisare che non significa non credere al racconto e alla denuncia della persona offesa», spiega Calice, «ma che non ci sono gli elementi e le prove sufficienti per poter andare avanti nel processo, e in altri casi, per i reati procedibili a querela, manca la querela».
Tra le misure cautelari, i braccialetti elettronici che consentono di geolocalizzare la persona e in caso di avvicinamento a chi ha subito violenza inviano una chiamata alle forze dell’ordine e alla persona interessata. Su 5.465 dispositivi in funzione, sono 928 quelli in applicazione del Codice rosso, un numero esiguo rispetto alle 27mila denunce. Oltre alla poca disponibilità ci sono stati anche casi di malfunzionamento legati a eccessive attivazioni.
Assenza di sostegno
La difficoltà di emersione del fenomeno e di sradicamento degli stereotipi di genere è dovuta principalmente all’isolamento sociale e al «vuoto sociale», come lo definisce il pm di Tivoli, cioè l’assenza di un sistema che possa sostenere socialmente, economicamente e culturalmente la donna.
Accade molto spesso alle donne straniere, precisa il procuratore, ma anche alle donne italiane inoccupate. «Nella pratica», conclude Calice, «quando la denunciante è assistita da un centro antiviolenza o da un’avvocata specializzata, solitamente le cose vanno meglio, perché la donna è sostenuta e in grado di dare tutte le risposte necessarie, e inizia quel percorso di liberazione dalla violenza che le consente di affrontare in maniera efficace il processo recuperando la propria dignità».
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