L’ultimo e disperato atto per portare i quattro agenti egiziani a processo per il sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni ha funzionato. Dopo quasi una settimana dalla camera di consiglio, la Consulta ha dichiarato “anticostituzionale" la norma che sino a ora aveva bloccato il procedimento in Italia.
L’ultimo e disperato atto per portare i quattro agenti egiziani a processo per il sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni ha funzionato. Dopo quasi una settimana dalla camera di consiglio, la Consulta ha dichiarato “anticostituzionale" la norma che sino a ora aveva bloccato il procedimento in Italia. L’Egitto, infatti, non ha mai fornito i recapiti degli uomini della National Security egiziana. Li ha resi irreperibili per la notifica degli atti senza la quale, sino a ieri, per il nostro ordinamento giudiziario, non si può celebrare un processo in contumacia.
«In attesa del deposito della sentenza - dice una nota inviata dall'ufficio comunicazione - la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa».
Gli agenti si chiamano Sabir Tariq, Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Per la procura di Roma sarebbero tra i responsabili del rapimento e della tortura del giovane ricercatore nel gennaio del 2016. Finora, senza la certezza che i quattro avessero ricevuto notifica formale del procedimento a loro carico, la giustizia italiana non ha mai potuto celebrare il processo. Nell’autunno del 2021, la Corte di Assise di Roma, lo aveva sospeso (decisione poi confermata dalla Cassazione) e la palla era tornata al Gup. Intanto, le pressioni diplomatiche continuavano a non funzionare. Per le autorità egiziane, infatti, il caso è chiuso ormai da anni. Per loro i responsabili della morte di Giulio Regeni sono una banda di rapitori stranieri. Una tesi che le autorità del Cairo hanno portato avanti sin dall’inizio di questa vicenda. Nel 2016, pochi mesi dopo il ritrovamento del corpo di Regeni nella periferia del Cairo, inscenarono un agguato dove persero la vita cinque presunti banditi. A casa della sorella di una delle vittime vennero fatti ritrovare i documenti del giovane ricercatore, mentre un comunicato del Ministero dell’Interno egiziano diceva che i componenti della banda sarebbero stati «legati all’omicidio» di Regeni.
Allora questo maldestro tentativo di insabbiare le indagini provocò il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo ma negli anni questa tesi è rimasta in piedi e ha rischiato di porre una pietra tombale anche al procedimento italiano. Secondo Il Cairo, infatti, non era possibile cha la giustizia egiziana collaborasse dando gli indirizzi dei quattro agenti della National Security. In Egitto il caso era risolto e i colpevoli individuati dalle indagini della autorità locali erano altri. Ricorrere alla Consulta era l’ultima soluzione percorribile per sbloccare un situazione diventata quasi impossibile. «Le norme costituzionali che indicano le basi del giusto processo sono completamente pretermesse – aveva scritto il GUP - perché in mancanza di una disciplina che consenta di procedere in assenza dell’imputato quando il suo stato di appartenenza o di residenza non cooperi con il giudice terzo e imparziale, tutte le norme sul giusto processo sono rese vane svuotate di contenuto»
Ora, in vista del processo, la scarsa collaborazione che le autorità egiziane hanno dimostrato in questi anni continuerà a pesare. Sono evidenti nelle migliaia di pagine dell’inchiesta della Procura di Roma che Domani ha avuto l’opportunità di visionare. I documenti inviati dall’Egitto, che negli anni ha collaborato a singhiozzo sfruttando anche l’assenza di accordi di cooperazione giudiziaria tra Il Cairo e Roma, mostrano diverse lacune. Gli agenti del Ros e dello Sco che arrivarono al Cairo nel 2016 dopo l’uccisione del ricercatore di Fiumicello ebbero poca libertà di movimento. Gli interrogatori, anche degli agenti imputati sentiti come persone informate sui fatti, arrivano dalle stesse autorità egiziane. Molti verbali sono redatti a mano in arabo sui dei fogli protocollo; in altri mancano le date di nascita o il documento di identità. Ciò che è certo è che la decisione della Consulta segna una svolta per un processo che sino a ieri, a causa anche della scarsa pressione delle autorità italiane, rischiava di non essere mai celebrato.
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