- La notizia dell’avvio di una indagine nei confronti di Beppe Grillo riporta all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del finanziamento della politica e del rapporto tra questa e le lobby.
- Il traffico illecito di influenze dovrebbe neutralizzare quel mondo “gelatinoso” popolato dai così detti faccendieri ma l’obiettivo viene perseguito mediante una incriminazione incostituzionale
- È urgente regolamentare il lobbying: dopo l’approvazione del disegno di legge alla Camera, ora tocca al Senato
La notizia dell’avvio di una indagine penale nei confronti del fondatore del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del finanziamento della politica e del rapporto tra questa e gli interessi organizzati.
Secondo quanto riportato dalla stampa, Grillo sarebbe indagato, come Matteo Renzi e Maria Elena Boschi per la questione della Fondazione Open, per traffico di influenze illecite: una fattispecie di reato introdotta nel codice penale nel 2012 e modificata in senso fortemente estensivo, per volere dell’allora ministro dei Cinque stelle Alfonso Bonafede, con una legge del 2019 battezzata dai promotori “spazzacorrotti”.
Il delitto di traffico di influenze illecite si realizza quando un soggetto, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un decisore pubblico, si fa dare indebitamente una qualsiasi utilità (non solo somme di denaro), come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico agente (come, ad esempio, un parlamentare) ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La norma dovrebbe servire a neutralizzare quel mondo “gelatinoso” popolato dai così detti faccendieri o facilitatori che interferiscono da posizione privilegiata, in modo non trasparente e improprio, sulle decisioni pubbliche.
Di fatto, però, l’obiettivo viene perseguito mediante una incriminazione che, dal punto di vista della necessaria tassatività del precetto penale, sembra essere la più incostituzionale dell’intero statuto penale della pubblica amministrazione.
Resta oscuro il tipo criminoso, vale a dire il disvalore della condotta che il legislatore intende reprimere. Dopo le modifiche ampliative del 2019, la descrizione del reato, già problematica in origine, appare oggi sospesa nel vuoto: una figura indistinta che può essere usata dalle procure come grimaldello per avviare indagini “perlustrative” a tutto campo, mentre la delimitazione del reato resta interamente affidata all’apprezzamento del giudice.
Non è un caso che, come evidenziato nel volume Lobbying e traffico di influenze illecite (Giappichelli 2019), a fronte di un numero rilevante e crescente di incriminazioni per questo reato, le condanne si contano sulle dita di una mano.
Che la fattispecie sia confusa, d’altronde, lo conferma anche l’esperienza comparata: in Francia e Spagna, dove è stata introdotta, crea i medesimi problemi.
C’è, poi, un’altra questione. Quando le indagini toccano i rapporti tra economia e politica subentra una profonda contraddizione: la democrazia vuole che gli interessi privati trovino rappresentanza politica e che spetti alla politica compiere la sintesi di tali interessi per il bene comune; ma con una fattispecie come il traffico di influenze, l’attività politica, in quanto tale, rischia di apparire favoritismo corruttivo ed essere criminalizzata.
Parliamo insomma dell’atavico dilemma del rapporto tra finanziamento alla politica e democrazia: da un lato vogliamo che sia privato, dall’altro che questo non influisca sulle scelte del parlamentare.
L’ulteriore nodo che andrebbe sciolto riguarda la definizione di “mediazione illecita” contenuta nel Codice penale. In Italia, infatti, manca una definizione di mediazione lecita (di lobbying) e questa assenza produce, naturalmente, l’impossibilità di comprendere il perimetro della fattispecie penale.
Chi ricorda, qualche anno fa, la clamorosa indagine che riguardava il compagno dell’allora ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi? Era indagata per traffico illecito.
Per giorni i giornali pubblicarono stralci dei messaggi, privati e penalmente irrilevanti, tra l’indagato e la ministra e l’opinione pubblica fu invitata a guardare dal buco della serratura la loro vita intima.
L’indagato venne prosciolto, qualche mese dopo, proprio per l’impossibilità di definire l’effettiva mediazione illecita, ma ormai il danno era stato fatto (la ministra fu costretta a dimettersi).
La vicenda che ora riguarda Grillo fa ben comprendere, quindi, come sia assolutamente urgente regolare il lobbying. Qualche giorno fa la Camera dei deputati, in prima lettura, ha approvato a larghissima maggioranza, senza voti contrari e con la sola astensione di Fratelli d’Italia, il disegno di legge di iniziativa dei parlamentari Silvestri, Madia, Fregolant.
Ora spetta al Senato il compito di concludere il lavoro: prima procederà e prima si darà un senso al traffico illecito di influenze, aiutando, al tempo stesso, i cittadini a distinguere tra il politico che pensa a sé e quello che pensa al paese.
© Riproduzione riservata