Per la Consulta l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che nega l’affettività ai detenuti, è incostituzionale. Ora tocca alle istituzioni intervenire sia dal punto di vista legislativo sia garantendo subito incontri privati
È incostituzionale negare l’affettività e la sessualità alle persone detenute. A dirlo la Corte costituzionale che ha pubblicato lo scorso 26 gennaio una sentenza definita «storica» dall’associazione Antigone, che da oltre 30 anni si occupa di diritti nelle carceri.
«È un cambiamento storico nella filosofia della pena nel nostro paese», spiega a Domani Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione, «rompe l’idea che si possano imporre dei limiti alla sfera intima, affettiva e sessuale, nel nome di una indistinta sicurezza». La Corte infatti, nella sentenza 10 del 2024, scrive che «l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali» e per i giudici la detenzione può incidere su questa libertà, «sui termini e sulle modalità di esercizio», «ma non può annullarla in radice».
Non si può quindi negare il diritto «con una previsione astratta e generalizzata» che non tenga conto delle condizioni individuali della persona detenuta, né delle «specifiche prospettive del suo rientro in società». Altrimenti si produce «una compressione sproporzionata della dignità». Non poter esprimere una normale affettività con il partner è quindi un pregiudizio alla persona nell’ambito familiare e alle relazioni, che rischiano di disgregarsi, tradendo la finalità rieducativa della pena e l’obiettivo della risocializzazione.
L’articolo 18
A essere stato dichiarato incostituzionale è l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che norma i colloqui: «Si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia». Finora gli incontri erano per legge sotto il controllo visivo della polizia penitenziaria. Questa è la parte incostituzionale per la Corte, perché non prevede la possibilità di incontri anche in forma privata con la persona con cui si ha una relazione stabile.
La questione è arrivata alla Consulta perché sollevata dal giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, a partire dalla situazione di un uomo detenuto nel carcere di Terni che aveva presentato un reclamo: l’impossibilità di incontri riservati con la compagna aveva ripercussioni sulla sua vita di coppia e sul suo reinserimento dopo la pena.
La Corte, che nel 2012 aveva rigettato un’ordinanza sul tema per la necessità di un intervento legislativo, questa volta ha chiesto un’azione combinata di legislatore, magistratura di sorveglianza e amministrazione penitenziaria. Oltre a riconoscere il diritto, chiede quindi di garantirlo nell’immediato.
Oltre al ruolo centrale del legislatore, spiega Gianfilippi a Domani, «mi sembra che la sentenza assegni all’amministrazione e alla magistratura di sorveglianza, già da subito, il compito di iniziare in concreto a ragionare di come consentire lo svolgimento dei colloqui intimi». Non solo dove esistono già gli spazi, precisa, ma anche dove non ci sono ancora, attraverso lo scambio di esperienze, anche da paesi in cui è già garantito il diritto, come Francia, Germania e altri. Un lavoro, dice, «con le direzioni degli istituti che, nonostante la sfida drammatica del sovraffollamento, sono certo comprendano l’opportunità grande che la sentenza della Consulta offre alla comunità penitenziaria».
Il legislatore
Nel frattempo alla Camera giace la proposta di legge di Riccardo Magi di +Europa, che dopo la sentenza ne ha chiesto di nuovo la calendarizzazione: «È necessario che i gruppi parlamentari prendano urgentemente sul serio la richiesta perentoria che arriva dalla Corte. Spero che porti a un’attivazione che finora non c’è stata».
La proposta riprende e integra quella presentata al parlamento dal Consiglio regionale della Toscana nel 2019, decaduta con la fine della scorsa legislatura. Già nel 2000 il Consiglio di Stato aveva stralciato la proposta, proprio perché di competenza del legislatore, di introdurre nel regolamento penitenziario la creazione di unità abitative, dove trascorrere fino a 24 ore con la famiglia. Nemmeno nel 2012, quando la Consulta aveva chiesto al parlamento di intervenire, si era arrivati a una legge. La proposta di legge prevede una visita al mese, senza controlli visivi e auditivi, in unità abitative, della durata minima di sei ore e massima di 24, con le persone autorizzate ai colloqui.
Nessun controllo visivo
Sulla sentenza si è espresso il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, secondo cui «i nostri penitenziari non possono e non devono diventare postriboli così come i nostri agenti di Polizia Penitenziaria non devono diventare “guardoni di Stato”!»
«La sentenza dice proprio che gli agenti non sono chiamati a fare i guardoni», risponde Magi, «ma i detenuti devono poter vivere la propria relazione affettiva e vita sessuale senza sorveglianza visiva». L’affermazione del Sappe preoccupa il deputato: «Evidentemente una parte della comunità penitenziaria non condivide fino in fondo il senso costituzionale della pena, per cui non dovrebbe esserci nessuna afflizione che vada al di là della privazione della libertà. Poter vivere appieno una vita affettiva rientra proprio nella finalità di reinserimento sociale».
I permessi premio
Il Sappe definisce poi il sesso in carcere «una previsione inutile e demagogica, anche in termini di sicurezza stessa del sistema» e chiede che siano potenziati i permessi premio. Ma legare il diritto all’affettività ai permessi premio, come già aveva scritto Gianfilippi nell’ordinanza, esclude dal diritto una larga parte di persone detenute.
«Il permesso premio», precisa il magistrato, «è uno strumento molto importante per sviluppare percorsi di progressiva e prudente risocializzazione delle persone condannate, ma è ancorato a requisiti soggettivi, che ne rendono l’ottenimento molto più difficile per gli autori di reati più gravi, e comunque all’esito di una valutazione di merito sul percorso compiuto in carcere, requisiti che stridono con l’esercizio di un diritto». Inoltre, spiega Gianfilippi, «difficilmente il permesso premio sarebbe compatibile con le esigenze cautelari», precludendo il diritto all’affettività a chi è in attesa di giudizio o di condanna definitiva.
Saranno l’amministrazione e i singoli istituti a dover trovare spazi adeguati perché la persona detenuta possa incontrare «il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso». Ma Antigone, spiega Gonnella, avrebbe auspicato un’apertura «anche oltre i rapporti codificati in coppia. Questo è un punto di partenza». Ora spetta «alla capacità dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza affinché creino o trovino gli spazi», dice.
Doppia illegalità
Sul punto torna il Sappe: «Fa riflettere che, in una situazione penitenziaria nazionale endemicamente complessa, in cui anche gli interventi di edilizia sono assai contenuti, assuma priorità la previsione di destinare stanze o celle per favorire il sesso ai detenuti», rievocando la questione del sovraffollamento delle carceri come principale ostacolo concreto.
Il sovraffollamento, già è motivo di illegalità delle carceri italiane, ricorda Magi, non può diventare motivo per un’altra illegalità costituzionale, «per il non rispetto di questa sentenza della Corte. Altrimenti finiremmo per accettare e per legittimare l’inferno che attualmente sono le carceri italiane».
La corte, conclude Gonnella, ha fornito la strada. Tutto dipenderà dalla buona volontà dell’amministrazione penitenziaria: «Senza ideologismi e senza cadere nel tabù del sesso, si crei uno spazio dove si possa stare in intimità. Non bisogna pensare allo spazio perfetto, è molto meglio fare scelte rapide e sobrie. Ma si faccia presto».
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