Il giornalista comprese subito la nuova strategia di "Cosa Nostra", volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall’esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60.
Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.
Un eccezionale interesse è riscontrabile nei numerosi articoli scritti da Mario Francese sulle vicende criminose in vario modo connesse ai lavori di costruzione della diga Garcia.
Mario Francese - il quale aveva già posto in luce i forti interessi economici dell’associazione mafiosa nel settore dell’edilizia negli articoli scritti in relazione alla “strage di Viale Lazio”, realizzata il 10 dicembre 1969 - comprese subito la nuova strategia di "Cosa Nostra", volta a sviluppare la propria dimensione imprenditoriale, ad imporre il proprio egemonico controllo sugli appalti pubblici, ad estendere e rafforzare il proprio potere nel contesto sociale ed economico, in un momento reso particolarmente favorevole dall’esito quasi integralmente assolutorio dei grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ’60.
Si trattava di una importantissima fase di sviluppo evolutivo dell’associazione mafiosa, i cui lineamenti essenziali sono oggi notori ma potevano, allora, essere intravisti solo da persone dotate di un non comune patrimonio conoscitivo e di una particolare capacità di cogliere i nessi tra gli eventi.
I nuovi interessi della mafia
Dalla seconda metà degli anni ’60 in poi, si era intensamente manifestata la tendenza degli esponenti mafiosi a costituire attività di impresa, principalmente nel campo dell’edilizia e dei lavori pubblici, segnatamente nei periodi storici in cui la rendita urbana assumeva un ruolo primario rispetto alla rendita fondiaria. Si era trattato del passaggio dalla fase tradizionale di immobilizzazione della ricchezza a quella più moderna di accumulazione del capitale: mentre fino all’inizio degli anni ’60 numerosi aderenti a "Cosa Nostra" erano impegnati essenzialmente nell’acquisizione della rendita fondiaria nelle campagne con un corrispondente depauperamento dei vecchi proprietari terrieri, successivamente la maggior parte dei proventi di condotte criminali venne impiegata in attività produttive al fine di una ulteriore valorizzazione.
Già nelle sue prime forme, le imprese mafiose rispondevano ad una pluralità di esigenze, in quanto servivano ad assicurare il riciclaggio dei profitti illeciti, la copertura delle attività delittuose, un più efficace controllo sociale attraverso un forte radicamento nel territorio, e la legittimazione del potere economico e politico dell’organizzazione criminale.
Le imprese mafiose originarie erano caratterizzate da una forte individualizzazione attorno alla figura dominante del fondatore, il quale le gestiva direttamente pur continuando ad espletare le altre attività delittuose della "famiglia". Le imprese in questione, anche quando avevano una diversa denominazione formale, erano solitamente conosciute come appartenenti all’esponente mafioso che le gestiva. Nella struttura di queste ditte era, non di rado, immediatamente visibile la presenza di componenti del nucleo familiare dell’associato.
Lo strumento essenziale dell’agire di queste unità economiche era la violenza mafiosa, che consentiva loro di affermarsi attraverso lo scoraggiamento della concorrenza e l’estromissione dal mercato delle aziende non disposte a venire a patti con il sodalizio criminale. La forza di intimidazione del vincolo associativo rappresentava sia la condizione che permetteva di acquisire una rilevante posizione di mercato, sia lo strumento che assicurava la regolazione dei rapporti con le imprese concorrenti.
Anche in seguito, i settori dell’edilizia e dei lavori pubblici hanno mantenuto un ruolo strategico nell’ambito delle attività economiche riconducibili alle associazioni mafiose, perché hanno svolto un ruolo trainante nell’economia e nella società meridionale, consentendo un’altissima valorizzazione del capitale e l’instaurazione di un rapporto particolarmente stretto con il complesso delle attività economiche delle zone dove è radicata "Cosa Nostra".
Tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80 si affermò negli ambienti mafiosi la tendenza a diversificare gli investimenti, impiegando i profitti derivanti dalle originarie aziende non tanto per accrescerne le strutture ed il volume di affari, quanto per costituire nuove imprese operanti nello stesso campo o in diversi settori di attività. Venivano formate, con particolare frequenza, più società, spesso nello stesso settore produttivo o commerciale. Le risorse a disposizione dei singoli esponenti mafiosi non erano state più concentrate in un solo strumento aziendale.
In questo processo di ristrutturazione economica, si trasformò anche l’assetto giuridico-formale della proprietà delle imprese e dei patrimoni immobiliari e finanziari. Si diffuse quindi il modello della c.d. impresa di proprietà del mafioso.
Si realizzò una situazione in cui gli esponenti mafiosi di spicco tendevano a non mantenere più nelle loro mani la titolarità formale ed i compiti diretti di direzione e gestione dell’impresa. Essi, invece, si limitavano a conservare la proprietà indiretta dell’impresa e ad esercitare in modo mediato la loro funzione di direzione.
In questo modo si costruì una schermatura tra l’impresa, da un lato, e l’origine illegale dei capitali e l’autore dell’accumulazione illecita, dall’altro.
Mentre l’impresa mafiosa tradizionale si fondava sulla spendita del nome dell’ "uomo d'onore", l’impresa di proprietà del mafioso cercava di operare senza manifestare - se non quando ciò diveniva indispensabile - il nome del soggetto cui essa apparteneva.
Questa trasformazione rispondeva alla necessità di "Cosa Nostra" di tutelarsi rispetto all’azione di contrasto dello Stato, attraverso l’occultamento del collegamento dell’impresa con l’esponente mafioso che ne era l’effettivo titolare.
Vennero utilizzati come prestanome, per la gestione di attività economiche apparentemente “pulite”, sia altri "uomini d'onore", la cui appartenenza a "Cosa Nostra" non era nota alle forze dell’ordine, sia soggetti che non erano formalmente affiliati all’organizzazione criminale, pur operando al suo servizio.
Poteva trattarsi anche di prestanome aventi precisi requisiti professionali: questi soggetti non si limitavano a svolgere un’azione di copertura formale delle proprietà e dell’impresa del mafioso, ma venivano incaricati della gestione dell’impresa e disponevano di poteri relativamente autonomi nell’ambito dei compiti loro assegnati.
Il pericolo della legge Rognoni-La Torre
Tutti questi accorgimenti rispondevano ad esigenze di mimetizzazione delle imprese mafiose.
In prossimità dell’approvazione della Legge Rognoni-La Torre (L. n. 646 del 13 settembre 1982), che ha reso meno agevole l’utilizzazione di prestanome, si è affermato un nuovo modello: quello della c.d. impresa a partecipazione mafiosa.
Si tratta di imprese spesso sorte nel rispetto della legalità, ma che hanno (sin dall’inizio o in un momento successivo) instaurato rapporti di cointeressenza e compartecipazione con determinati esponenti mafiosi, i cui capitali sono stati investiti in modo organico e stabile nelle aziende. Si verifica così una compresenza di interessi, soci, e capitali illegali, con interessi, soci, e capitali legali.
La formazione di imprese a partecipazione mafiosa costituisce il frutto degli intensi e stabili rapporti creati dall’organizzazione mafiosa con i più vari settori dell’economia legale. "Cosa Nostra" ha cercato di fondare questo rapporto non solo su atti violenti, ma anche su una reciprocità di interessi e su una compenetrazione di capitali e competenze.
L’impresa a partecipazione mafiosa permette alla struttura criminale di rendere ancora più occulti i canali di riciclaggio e di reimpiego dei capitali illeciti, di diversificare ulteriormente gli investimenti, di disporre di strutture imprenditoriali che, per la loro rispettabilità e la loro esperienza, sono capaci di operare come normali agenti di mercato; ma anche di compenetrare l’economia mafiosa con quella legale, rendendole difficilmente distinguibili tra loro, e di realizzare una regolazione complessiva del mercato locale e un più solido controllo del territorio.
Il suesposto processo di ampliamento delle dimensioni e di diversificazione delle forme di manifestazione dell’imprenditorialità mafiosa si è accompagnato all’accentuazione della struttura organizzativa unitaria e verticistica dell’organizzazione criminale.
L’effetto di questa evoluzione, nel contesto siciliano, è stato l’accrescimento dell’autonomia e del peso del potere mafioso rispetto al mondo politico ed agli ambienti imprenditoriali. "Cosa Nostra" ha così superato ogni rapporto di subordinazione rispetto all’élite politica, ed è entrata a fare parte a pieno titolo, e non di rado in posizione dominante, del blocco di potere che – attraverso accordi illeciti e collusioni tra rappresentanti delle istituzioni, imprese locali e nazionali, e esponenti della criminalità organizzata – ha operato un penetrante controllo sugli appalti pubblici in Sicilia, sia nella fase aggiudicazione dei lavori, sia in quella di esecuzione delle opere.
La capacità di "Cosa Nostra" di influenzare in modo capillare ed incisivo il sistema degli appalti pubblici corrisponde alle caratteristiche peculiari dell’associazione mafiosa, che - come è stato evidenziato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. sent. del 30/1/1990, ric. Abbattista) - non è diretta semplicemente a realizzare una pluralità di delitti, ma piuttosto a realizzare, attraverso delitti, il controllo e la gestione di attività produttive.
Il controllo degli appalti di opere pubbliche ha costituito uno dei principali terreni di incontro tra mafia, uomini politici, funzionari amministrativi, ed imprenditori (non solo operanti nel mercato locale, ma anche di rilievo nazionale). All’obiettivo immediato di lucrare tangenti, collocare manodopera, far acquisire forniture alle ditte legate a "Cosa Nostra", si è accompagnato l’obiettivo più generale di sottoporre all’influenza dominante dell’illecito sodalizio i settori più rilevanti della vita politica ed economica siciliana.
Ne sono derivate diverse forme di manifestazione dei rapporti tra associazioni criminali ed imprenditori, che si sono aggiunte alle varie tipologie di imprese mafiose.
Un significativo contributo al rafforzamento di "Cosa Nostra" è stato arrecato dagli imprenditori collusi che hanno instaurato una relazione clientelare con gli esponenti mafiosi (c.d. imprenditori clienti), contraendo con essi un accordo attivo reciprocamente vantaggioso, da cui sono derivati obblighi vicendevoli di collaborazione e di scambio, in vista del conseguimento di interessi comuni. Questi soggetti hanno intrattenuto con gli "uomini d'onore" un rapporto stabile e continuativo di interazione, fondato sulla cooperazione reciproca e su legami personali di fedeltà. Dagli imprenditori che hanno instaurato un simile rapporto di scambio (e che quindi hanno fruito di una protezione attiva), il gruppo mafioso ha preteso prestazioni diffuse, con il contenuto più vario (ad esempio, offerta di informazioni, accesso a determinati circuiti politici e finanziari, ospitalità per latitanti, testimonianze di comodo, e così via).
Economia legale e collusione
Un ulteriore consolidamento del potere dell’organizzazione mafiosa è derivato anche dal comportamento degli imprenditori collusi legati da una relazione strumentale a "Cosa Nostra" (c.d. imprenditori strumentali). Si tratta di soggetti che hanno instaurato con "Cosa Nostra" un accordo limitato nel tempo e definito nei contenuti, negoziando caso per caso l’eventuale reiterazione del patto secondo le esigenze contingenti. Essi hanno accettato di collaborare con gli esponenti mafiosi sulla base di una considerazione utilitaristica del contesto ambientale in cui svolgono la loro attività. Le interazioni tra i mafiosi e questi imprenditori sono state regolate dalla logica dello scambio.
Il rapporto di scambio instaurato dai c.d. imprenditori strumentali è stato, di regola, funzionale al conseguimento di un reciproco vantaggio economico, ed ha indotto le imprese a fornire all’associazione criminale prestazioni utili, in misura considerevole, al mantenimento o al rafforzamento della sua struttura, della sua organizzazione e delle sue attività.
La collusione tra mafia ed operatori economici, che ha alimentato la circolarità del ritorno di utilità reciproche tra impresa e criminalità organizzata, si è riflessa negativamente sull’intero mercato, di cui sono stati alterati gli equilibri e falsati i meccanismi.
Conflitti e affari: la costruzione della diga del Belice
Le infiltrazioni di "Cosa Nostra" nel mondo degli appalti e dell’economia, il loro stretto collegamento con le più sanguinarie manifestazioni di violenza mafiosa, il contestuale affermarsi dello schieramento trasversale facente capo ai “corleonesi”, il nuovo terreno di incontro creatosi tra l’illecito sodalizio e i grandi gruppi imprenditoriali nel controllo degli appalti di opere pubbliche, furono colti, analizzati ed interpretati con particolare lucidità da Mario Francese in una serie di inchieste giornalistiche da lui effettuate nella seconda metà degli anni Settanta.
Dagli articoli da lui redatti emerge un amplissimo complesso di notizie e di strumenti di comprensione in ordine a quella politica di alleanze – fondata sulla violenza ma anche sulla mediazione – che consentì ai “corleonesi” di imporre il loro dominio sulla realtà siciliana.
Mario Francese comprese subito che i violenti conflitti interni a "Cosa Nostra", manifestatisi in ripetuti episodi omicidiari nella seconda metà del 1977, si collegavano strettamente ai grandi interessi economici connessi alla costruzione della diga del Belice.
Un primo grave fatto di sangue di cui egli, nelle sue cronache giornalistiche, individuò con chiarezza le cause profonde, fu l’attentato commesso il 19 luglio 1977 in danno dell’affittuario della cava di Contrada “Mannarazze”, nel territorio di Roccamena, Rosario Napoli, del suo figlioletto Fedele Napoli, e dell’autista Vincenzo Montalbano.
Nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 20 luglio 1977, Mario Francese specificò che si trattava di un attentato volto ad ottenere lo “sfratto forzato” dell’affittuario della cava, la quale stava acquistando una rilevante importanza per l'inizio dei lavori per la costruzione della diga del Belice:
Attentato mafioso ieri a mezzogiorno a Roccamena. Pistolettate e lupara a ripetizione contro il proprietario di una cava
Il proprietario di una cava di Roccamena, un figlioletto di 9 anni e un dipendente sono sfuggiti ieri, nella tarda mattinata, ad un attentato di un gruppo di quattro-cinque killer: un attentato forse più dimostrativo che rivolto alla eliminazione della vittima, a quanto pare da tempo predestinata e avente per obiettivo lo sfratto forzato della zona del proprietario della cava.
E' stato poco dopo mezzogiorno che Rosario Napoli proprietario della cava di contrada “Marannazza”, a circa due chilometri dall'abitato di Roccamena, con il figlioletto Fedele, 9 anni e il dipendente Vincenzo Montalbano, oriundo di Alcamo, stava dirigendosi verso la sua macchina per rientrare in paese per il pranzo. Giunti sul viottolo a circa duecento metri dalla cava, dove era posteggiata l'auto, Rosario Napoli, 36 anni, ha visto sopraggiungere un'auto di grossa cilindrata, pare un'alfa con a bordo quattro o cinque persone. Non ha avuto dubbi, anche per una serie di precedenti, sulle intenzioni dei nuovi arrivati. Ha quindi afferrato per mano il figlio tirandolo verso la sua auto e invitando il dipendente ad entrare a bordo. Il tempo di avviare il motore e di mettere in moto il mezzo, che dall'altra macchina posteggiatasi ad una ventina di metri, è stata sparata dal finestrino una gragnuola di colpi di cal.38 e di fucilate a lupara. Tutti i colpi sparati dai killer si sono schiacciati sulla carrozzeria dell'auto del Napoli in fuga senza raggiungere bersagli umani. Soltanto una scheggia di lupara ha ferito di striscio ad un braccio uno dei tre occupanti il mezzo. Compiuta l'azione, a quanto pare dimostrativa, i killer si sono velocemente dileguati con la loro auto.
In paese, Rosario Napoli ha dato l'allarme. Oltre ai carabinieri locali e delle compagnie di Corleone e di Monreale, sono intervenuti il vice questore dottor Chiavetti, nuovo dirigente del commissariato di Corleone, e dirigenti del settore della Criminalpol, della polizia giudiziaria e della squadra mobile di Palermo.
Il dottor Chiavetti, che ha diretto l'indagine in collaborazione con l'Arma, ha inquadrato l'episodio nel quadro di un tentativo, che ormai ha vecchie radici, di sfrattare il Napoli dalla cava. Circa due mesi fa, il commissariato di Corleone aveva ricevuto una telefonata anonima con la quale si comunicava la presenza a Roccamena di un quartetto in macchina armato. Immediatamente furono disposte dal commissariato di Corleone dei carabinieri, battute con l'ausilio di un elicottero. Dell'auto dei banditi armati, però, non fu trovata traccia.
L'episodio fu ritenuto come un'azione dimostrativa nei confronti di Rosario Napoli, che già aveva ricevuto le prime minacce se non si fosse deciso ad abbandonare la cava di contrada “Marannazza”. Da allora si è avuta una vera e propria escalation di fatti intimidatori. Azioni di disturbo hanno tormentato il Napoli che, in questi ultimi mesi, ha ricevuto anche nottetempo, una serie di telefonate preannuncianti gravi rappresaglie se non si fosse deciso ad abbandonare la cava.
Venerdì scorso, recandosi alla sua cava per il consueto lavoro, Rosario Napoli aveva trovato la stradella di accesso sbarrata da tronchi. Anche quello è considerato dagli inquirenti come un avvertimento. Ma Rosario Napoli, pur consapevole dei grossi rischi cui si esponeva, non volle alzare “bandiera bianca”. Sceso dalla sua auto, rimosse i tronchi che ostruivano il passaggio e si recò nella sua cava continuando il lavoro di estrazione.
L'attentato di ieri, quindi, è ritenuto dal vice questore Chiavetti come l'immediata risposta del “clan degli intimidatori” all'atteggiamento risoluto del Napoli.
Che faranno ora gli “anonimi” del racket delle cave? Dopo le lupare dimostrative passeranno all'azione vera e propria?
L'importanza della cava di contrada “Marannazza” ha acquistato un valore rilevante per l'inizio dei lavori per la costruzione della diga del Belice. Una cava, quindi, che sollecita appetiti di personaggi che, con le intimidazioni, dall'ombra, sperano di indurre il proprietario ad abbandonarla. Proprio una trama da western americano dell'800.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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