- L’attore ha vinto il processo per diffamazione contro l’ex moglie che, in pieno MeToo, lo aveva accusato pubblicamente di violenza domestica. La giuria ha dovuto pronunciarsi sulla diffamazione, non sulla violenza. La differenza, neanche tanto sottile, è che nel secondo caso una mancanza di prove si traduce in un’assoluzione e nel primo caso in una condanna.
- Diffamazione non è necessariamente dire il falso, ma dire qualcosa che non è dimostrato: e come si dimostra una violenza quotidiana e ripetuta?
- A risolvere la piaga della violenza domestica non saranno né i tribunali né la giustizia popolare: deve cambiare la società. Il processo non poteva finire altrimenti. Dobbiamo trovare altri modi di prevenire la violenza domestica.
La vittoria di Johnny Depp al processo contro la sua ex moglie, o più precisamente la condanna di Amber Heard per avere diffamato il suo ex marito in uno dei processi più mediatizzati della storia, ha scatenato la tifoseria. A quattro anni dalla pubblicazione, in pieno MeToo, di un editoriale sul Washington Post in cui lei accusava lui – anonimamente ma riconoscibilmente – di violenza domestica, con conseguenze gravi sulla sua carriera, la sentenza è stata recepita come la prova provata che anche le donne talvolta mentono.
Una liberazione per molti maschi terrorizzati di finire un giorno intrappolati in una trama degna del film Gone girl. Ma anche un duro colpo alla certezza per le donne di essere ascoltate e credute quando denunciano le violenze subite. La scrittrice Ella Dawson ha scritto che questo processo avrà effetti negativi sulle vittime di abuso per decenni, precisando come Depp abbia avuto fin dall’inizio il coltello (giudiziario) dalla parte del manico: è lui ad avere scelto la sede del processo in Virginia, invece della California dove vivono entrambe le parti, per godere di leggi diverse e di una copertura mediatica massiccia. Per decenni, dunque, le donne vivranno col terrore che denunciando rischiano di subire ingenti danni finanziari e un’umiliazione pubblica.
Questo vuol dire che Heard non è colpevole, che il colpevole è Depp, o che sono entrambi colpevoli, come ecumenicamente precisano molti commentatori? Di questo non sappiamo nulla e facciamo al lettore il dono di non fornire nessuna opinione. Se Depp ha potuto scegliere la sede giudiziaria è semplicemente perché è lui che ha mosso la causa; e ha mosso lui la causa – per diffamazione – perché non l’ha mossa prima lei per violenza. Qui sta il nodo della questione.
La giuria ha dovuto pronunciarsi sulla diffamazione, non sulla violenza. La differenza, neanche tanto sottile, è che nel secondo caso una mancanza di prove si traduce in un’assoluzione e nel primo caso in una condanna. Con il suo editoriale sul Washington Post, Heard ha mosso accuse pesantissime che non erano corroborate da nessuna sentenza passata in giudicato, e quindi si è fatalmente esposta all’accusa di diffamazione.
È per questa ragione che, prima del MeToo, si riteneva che il luogo più idoneo per ottenere giustizia fosse l’aula di un tribunale, per mezzo di procedure in grado di produrre una verità condivisa. È per questa ragione che Heard nel 2018 avrebbe fatto meglio a fare una causa invece che un editoriale. Ma sappiamo anche perché negli ultimi anni sono state esplorate altre strade: perché la violenza domestica non è facilmente dimostrabile e i tribunali si sono mostrati incapaci di affrontare il fenomeno.
Forse Heard si è rivolta all’opinione pubblica americana perché, come tante altre donne, temeva di non essere creduta, non voleva imbarcarsi in un estenuante processo e subodorava quale fosse il potere finanziario contro cui andava a scontrarsi. Alla fine non è riuscita a evitare nessuna di queste tre cose, perché nella società liberale continua a valere la regola secondo cui un’accusa grave deve essere dimostrata. Meno male. Il problema è che esistono crimini invisibili e accuse che non possono essere provate: che fare allora?
Mettiamola così. Il MeToo ci ha insegnato che la giustizia dei tribunali è uno strumento inadatto per affrontare un problema sociale sommerso ed endemico. D’altra parte, i suoi fallimenti ci hanno mostrato i limiti del populismo penale e dei tribunali mediatici.
Possiamo sicuramente perfezionare questi strumenti. Insistere, ad esempio, perché la polizia e i tribunali siano maggiormente all’ascolto delle donne, invece di liquidare le denunce. O addirittura, come proponeva ironicamente (ma non troppo) Guido Vitiello qualche tempo fa sul Foglio, «disciplinare il rito mediatico», ovvero prendere atto dell’assorbimento di televisione, giornali e social nel funzionamento esteso della macchina giudiziaria.
Tuttavia sia il tribunale reale che quello mediatico sono sistemi di sanzione, e arrivano troppo tardi nella filiera di produzione della violenza. Questo accade perché nella società moderna gli individui sono sempre più soli di fronte agli abusi, senza reti di prossimità a proteggerli.
Lo stato non ha sufficienti mezzi e risorse per risolvere ogni singolo contenzioso. Insomma abbiamo scoperto che la società civile ha ancora bisogno dei corpi intermedi, delle famiglie, delle associazioni, delle comunità. In questo senso, Depp e Heard hanno messo in scena la crisi conclamata di una civiltà moderna che ha iniziato ad apparirci desueta.
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