Nei giorni scorsi si è parlato molto di cancellazione del debito e troppo poco di eventi dalla portata potenzialmente più dirompente. Penso in particolare alle dichiarazioni del Commissario Paolo Gentiloni che ha di fatto sepolto il Patto di Stabilità e Crescita, la regola fiscale che l’Ue si è data nel 1997.

Coerentemente con il consenso accademico degli anni Novanta che attribuiva un ruolo molto limitato alla politica di bilancio, il Patto di Stabilità consente solo i disavanzi causati dalle fluttuazioni dell’economia.

Le politiche discrezionali in disavanzo non sono permesse. È una regola che ci ha accompagnato fino ad oggi, subendo poche modifiche; la più significativa è stata l’inasprimento successivo alla crisi greca con il Fiscal Compact e i regolamenti del Two-Pack e Six Pack, che hanno un ruolo fondamentale anche nel funzionamento del Mes.

Quando c'era l’austerità

Sarebbe semplicistico dire che le regole fiscali europee hanno imposto la stagione dell’austerità dopo il 2010. Essa è il frutto di una visione che accomunava economisti, istituzioni europee e capi di governo, facendo risalire l’instabilità finanziaria e la crisi del debito alla dissolutezza dei governi della cosiddetta periferia. Tuttavia, le istituzioni per la governance macroeconomica europea erano coerenti con la svolta verso l’austerità e, come la storia greca insegna, mettevano a disposizione delle istituzioni europee gli strumenti di pressione adatti per imporla anche ai governi più recalcitranti.

Non è stata una bella stagione per l’Europa e per la moneta unica, con una seconda recessione nel 2012, divergenza crescente tra il centro e la periferia e una ripresa per alcuni paesi debole e incompleta.

La crisi finanziaria ha provocato un sisma tra gli economisti; tutti i vecchi dogmi sono oggi ridiscussi. Dal ruolo della politica di bilancio alla politica industriale e della concorrenza alle politiche monetarie non convenzionali, posizioni fino a qualche anno fa considerate eretiche sono discusse come possibili soluzioni per rilanciare l’economia.

Queste discussioni si sono fatte strada fino nel cuore delle istituzioni europee, che dopo essere state colpevolmente abbarbicate al vecchio consenso durante la crisi del debito sovrano, sembrano oggi molto più aperte a confrontarsi con il dibattito in corso tra gli economisti sulla riforma dell’eurozona.

È in questo quadro che nel marzo scorso, di fronte all’enorme sforzo dei paesi membri per contrastare la pandemia, la Commissione ha per la prima volta nella sua storia attivato la clausola di sospensione generalizzata del Patto di stabilità.

La revisione profonda

La presidente Ursula von der Leyen ha detto in un tweet che nessuna regola dovrebbe ostacolare il tentativo dei governi di «pompare euro nell’economia».

La sospensione del Patto, ovviamente motivata dalla pandemia, è tuttavia avvenuta qualche settimana dopo l’apertura di un processo di consultazione sulle regole che a sua volta prende le mosse dal bilancio, sorprendentemente severo, del quadro esistente.

La Commissione fa proprie le critiche che ormai da qualche anno fanno l’unanimità tra gli economisti indipendenti: il quadro attuale è eccessivamente complesso, arbitrario, difficile da far rispettare; grazie alle regole si sono controllati i disavanzi ma non il debito, che è la vera misura della sostenibilità delle finanze pubbliche; l’investimento pubblico, generalmente più facile da ridurre di quanto non siano le spese correnti, è stato penalizzato; infine, la Commissione riconosce per la prima volta che il quadro attuale ha spinto molti governi a ridurre la spesa quando l’economia rallentava (in particolare tra il 2010 e il 2013). Insomma, tra le righe si legge che le regole europee hanno reso la politica di bilancio un fattore di instabilità e non di stabilizzazione.

Il processo di consultazione è stato sospeso dall’emergenza del Covid ma recentemente Gentiloni lo ha rilanciato, proprio nei giorni in cui affermava ciò che era ovvio a tutti, vale a dire che rimarrà sospeso almeno fino al 2022. È quindi fortemente probabile che le regole esistenti saranno rimpiazzate prima di tornare in vigore.

Superare il 3 per cento 

Tra le molte proposte di riforma, due a mio avviso sono degne di nota. La prima, di cui in si discute dagli anni Novanta, ha lo scopo di preservare l’investimento pubblico escludendolo dal calcolo del deficit (il famoso 3 per cento). Gli eventi di questi mesi hanno mostrato come l’investimento sia da intendersi in senso lato come qualunque spesa (ad esempio nella sanità) capace di incrementare il capitale materiale e immateriale.

La seconda proposta propone di sostituire i parametri numerici con degli standards, dei principî di buona gestione delle finanze pubbliche il cui rispetto garantirebbe di non essere sanzionati indipendentemente dall’andamento contingente di debito e deficit pubblici. La proposta, radicale, non sembra avere spazio politico. Ma il fatto stesso che se ne discuta mostra come oggi il terreno sia fertile per un confronto a tutto campo.

La nuova governance delle politiche di bilancio potrà ispirarsi ad una di queste due proposte o ad un’altra che emergerà dal dibattito dei prossimi mesi. In ogni caso, è importante che l’obiettivo di sostenibilità delle finanze pubbliche sia ottenuto compatibilmente con la ritrovata centralità delle politiche di bilancio nella cassetta degli attrezzi del policy maker.

@fsaraceno

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