- Le regole sull’auto-sorveglianza sono in contrasto con il Protocollo Covid nei luoghi di lavoro: per le prime, il lavoratore “contatto stretto” con 3 dosi (oppure 2 o guarito da meno di 120 giorni) potrebbe recarsi anche al lavoro; per il secondo, ciò gli sarebbe precluso.
- Chi apprenda in modo informale – non dall’autorità sanitaria - di essere “contatto stretto” e dovesse stare in quarantena, non potrebbe comprovarlo atto ufficiale e potrebbe essere reputato assente ingiustificato al lavoro. Ma se il datore di lavoro lo facesse entrare, potrebbe incorrere in responsabilità per contagi.
- Non risulta sia stata rifinanziata l’assenza per quarantena. Se il datore di lavoro non ne sosterrà interamente la spesa, il lavoratore potrebbe dissimulare la propria condizione di “contatto stretto” per continuare a lavorare e non subire perdite economiche.
Dopo il decreto-legge di fine anno (n. 229/2021) e la circolare esplicativa del ministero della Salute (30 dicembre 2021), con le perplessità esposte in un articolo precedente, sono arrivate le immancabili FAQ (Frequently Asked Questions), “fonte” di diritto materiale in pandemia. Ma restano irrisolti problemi ulteriori, e di non poco conto.
Il Protocollo nei luoghi di lavoro
Com’è noto, i soggetti asintomatici, “contatti stretti” di positivi, che abbiano ricevuto la dose booster, oppure abbiano fatto la seconda dose di vaccino o siano guariti da infezione da meno di 120 giorni, non devono più stare in quarantena, bensì in “auto-sorveglianza”, nuova categoria dai contorni poco definiti.
In sostanza, l’unico obbligo che hanno è quello di indossare mascherine di tipo Ffp2 per almeno dieci giorni dall’ultimo contatto, oltre a fare tamponi in caso di sintomi, e sono liberi di andare in giro. Con le FAQ è stato acclarato che si applica quanto previsto dalla circolare, quindi il periodo di auto-sorveglianza termina al quinto giorno, e senza tampone, anziché al decimo giorno, e con tampone, come invece poteva evincersi dal decreto-legge.
Ma resta una discordanza ulteriore. Infatti, il “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Sars-Cov-2/Covid-19 negli ambienti di lavoro”, adottato nell’aprile 2020 e aggiornato il 6 aprile 2021, sancisce la «preclusione dell'accesso a chi, negli ultimi quattordici giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al virus».
Quindi, in sintesi, da una parte, si dice che il lavoratore “contatto stretto”, vaccinato con tre dosi, oppure con due o guarito da meno di 120 giorni, può recarsi al lavoro; dall’altra parte, si dice che ciò gli sarebbe vietato.
Il Protocollo, richiamato in atti normativi, ha il rango di norma primaria. Qual è la fonte che prevale? Le ultime disposizioni del governo, ai sensi delle quali il “contatto stretto” è libero di circolare, dunque anche di recarsi al lavoro, o il Protocollo, che ne preclude l’accesso nei luoghi di lavoro?
Potrebbe sostenersi, in conformità ai criteri di interpretazione della legge, che la norma posteriore deroga a quella precedente, se non fosse che la norma derogatoria di una regola adottata con il concorso delle parti sociali richiederebbe almeno un’interlocuzione con queste ultime, prima di essere emanata. Quindi, il dubbio resta, e il governo farebbe bene a chiarire.
Infatti, in caso di contagi di azienda, il datore di lavoro non incorre in responsabilità solo se abbia rispettato le «prescrizioni contenute nel protocollo» citato (art. 29-bis, d.l. n. 23/2020, convertito in l. n. 40/2020). Pertanto, se egli seguisse le disposizioni del governo, in contrasto con il Protocollo, e lasciasse libero il “contatto stretto” di entrare nella sede lavorativa, l’esenzione da responsabilità sancita dalla norma citata potrebbe non “funzionare”.
Peraltro, il datore di lavoro incorre in responsabilità anche penali, in caso di inosservanza di obblighi cui è tenuto. Quindi, il principio di tassatività impone che il legislatore sia chiaro, e non lasci spazio all’interpretazione di eventuali modifiche o abrogazioni più o meno implicite, come nel caso in esame.
I problemi della quarantena
I problemi riguardano non solo coloro i quali devono stare in auto-sorveglianza, ma anche chi è sottoposto a quarantena vera e propria, perché “contatto stretto” vaccinato con due dosi o guarito da più di 120 giorni oppure non vaccinato affatto. Il “contatto stretto” di un positivo potrebbe essere stato avvisato dal positivo stesso, ma non dall’Azienda sanitaria, dato che il sistema di tracciamento è in affanno, anche per la rapidità della diffusione della variante Omicron.
In tale caso, il lavoratore che comunichi l’assenza per quarantena al proprio datore di lavoro non sarebbe in grado di comprovare l’effettivo “contatto stretto” attraverso l’avviso formale dell’autorità a ciò preposta. Dunque, il datore di lavoro potrebbe reputare ingiustificata la sua assenza. Ma se il dipendente, per evitare ciò, accedesse al luogo di lavoro, il datore di lavoro potrebbe incorrere in responsabilità, nel caso di contagi in azienda. La situazione appare, anche giuridicamente, surreale.
Mancato rifinanziamento della quarantena
La quarantena dei “contatti stretti” resta equiparata a malattia, ai sensi del decreto Cura Italia (d.l. n. 18/2020), ma non risulta sia stata rifinanziata dal governo. L’indennità di quarantena era stata introdotta nel marzo 2020 per coprire economicamente il periodo di isolamento obbligatorio prescritto ai “contatti stretti” di un positivo all’infezione da Sars-CoV-2.
Come spiegato dall’Inps, essa consiste in «un trattamento economico equiparato a quanto previsto in caso di malattia comune sulla base della normativa di riferimento». Dall’inizio della pandemia, l’indennità ha costituito una forma di tutela riconosciuta a chi fosse impossibilitato a lavorare – affinché non dovesse usare ferie o permessi – mediante l’assimilazione alla malattia dei periodi di assenza dovuti a “quarantena con sorveglianza attiva” o “permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva” o “quarantena precauzionale” (messaggio Inps n. 2584/2020). Tale tutela è prevista per i lavoratori dipendenti del settore privato (mentre per quelli pubblici, sempre in base al decreto Cura Italia, l’assenza per le cause indicate è equiparata a ricovero ospedaliero). L’indennità non spetta solo «nei casi in cui il lavoratore in quarantena continui a svolgere (…) l’attività presso il proprio domicilio, mediante forme di lavoro alternative alla presenza in ufficio. In tale circostanza, infatti, non ha luogo la sospensione dell’attività lavorativa e viene erogata la normale retribuzione» (messaggio Inps n. 3653/2020).
Oggi si pongono, pertanto, i medesimi problemi che si erano presentati nei mesi scorsi, sempre per il mancato finanziamento della misura. Ancora una volta, non è venuta meno l’equiparazione della quarantena alla malattia, ma il governo non ha stanziato i fondi per coprirla economicamente. Insomma, in una serie di ipotesi - previste dal ministero della Salute - c’è l’obbligo di quarantena, ma non l’indennità di quarantena.
Chi potrà svolgere la propria attività da remoto continuerà a percepire la retribuzione ordinaria. Mentre chi può lavorare solo in presenza, ma è tenuto a stare a casa in quarantena, non riceverà i fondi dell’indennità a carico dell’Inps. Pertanto, a meno che il datore di lavoro non sostenga interamente la spesa dell’assenza del lavoratore, quest’ultimo dovrà utilizzare ferie o permessi, sempre che ne disponga.
Alto è il rischio che, per evitare di stare in quarantena e doverne subire le conseguenze sul piano economico, il lavoratore dissimuli la propria condizione di “contatto stretto”, e continui a operare in presenza, rappresentando così un pericolo per tutti gli altri. La pandemia non è finita, e servono interventi regolatori che incentivino non solo le vaccinazioni, ma anche le precauzioni. Riguardo alla quarantena pare non ve ne sia molta consapevolezza.
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