Quando la notte del 18 marzo i bergamaschi hanno visto sfilare per strada i mezzi militari carichi di bare non era ancora chiara la gravità di quello che stava accadendo: quel momento ha cambiato tutto
- La foto è stata scattata da uno steward della compagnia aerea RyanAir e in poche ore è stata ripubblicata in tutto il mondo.
- I camion militari erano un’idea di un assessore di Bergamo, che aveva visto di persona la situazione disastrosa dei servizi funerari della città.
- Dopo la sua pubblicazione, è diventato impossibile negare la gravità di quello che stava accadendo a Bergamo e la pericolosità del Covid-19.
La sera del 18 marzo la città di Bergamo era in quarantena da ormai dieci giorni. Le strade erano deserte e silenziose e, a parte un paio di giornalisti e fotografi, non c’era nessuno ad assistere all’uscita di una dozzina di pesanti camion militari da un ingresso laterale del cimitero della città.
Scortati da due automobili dei carabinieri, i camion sfilarono lentamente davanti al monumentale famedio di inizio Novecento che fa da ingresso al cimitero e imboccarono via Borgo Palazzo, lo stradone in quel momento deserto che li avrebbe condotti verso l’autostrada.
Diversi residenti furono attirati alle finestre dal rumore dei mezzi in quella notte silenziosa. Uno di loro, un giovane steward della compagnia aerea RyanAir arrivato in città da pochi mesi, ricorda che quando vide i camion scortati dai carabinieri la prima cosa a cui pensò fu che finalmente in città erano arrivati i rinforzi ad aiutare gli ospedali cittadini.
L’illusione fu breve. In quei minuti, l’agenzia Ansa diffuse la notizia che un convoglio di mezzi militari carichi di bare stava attraversando la città. La pressione che quei camion erano venuti ad alleviare non era quella dei malati sugli ospedali, ma quella dell’enorme numero di decessi sui forni crematori della città.
Lo steward di RyanAir fece una fotografia dei camion. È un’immagine leggermente sfocata. La fila dei mezzi militari la taglia quasi a metà, obliquamente. Sullo sfondo, il panorama anonimo di quella che potrebbe essere la periferia di una qualunque città di provincia, freddamente illuminata dalla luce dei lampioni.
Quella notte furono scattate altre foto e furono girati altri video dei mezzi militari. Ma è stata la fotografia scattata dallo steward a diventare il simbolo della prova unica affrontata dalla città di Bergamo. E simboleggiandone l’ordalia, è diventata una fotografia che racconta la storia di un intero paese, il primo in Europa ad essere colpito dal Covid-19.
L’epidemia
«Quella foto è stata scattata in un momento in cui il dramma della nostra città non era ancora conosciuto», racconta Giacomo Angeloni che a Bergamo è assessore all’Innovazione con delega ai servizi cimiteriali. L’epidemia aveva colpito così in fretta che fino a quella notte in pochi avevano compreso la gravità della situazione.
I primi casi erano stati scoperti appena un mese prima, il 23 febbraio, nell’ospedale di Alzano Lombardo, all’imboccatura dell’industrializzata Val Seriana, pochi chilometri dal centro di Bergamo. L’ospedale venne chiuso e poi riaperto per ordine della regione, una serie di eventi ancora poco chiara e su cui sta indagando la magistratura. Per una settimana si parlò di isolare Alzano e la vicina Nembro e forse l’intera Bergamo, ma alla fine non se ne fece niente. Per una settimana, gli abitanti di Bergamo e delle altre città vissero in un clima surreale, senza poter credere davvero di averla scampata, ma allo stesso tempo senza accettare che qualcosa di enorme stava per accadere.
Poi, nei primi giorni di marzo, le cose cambiarono in fretta. Un dirigente del 118 ha raccontato che all’improvviso fu come se la Val Seriana fosse stata colpita da un bombardamento. Le chiamate al 118 proveniente da Alzano, da Nembro, da Albino, da Cene iniziarono a moltiplicarsi. In poco tempo, il contagio sembrò esplodere anche in Val Brembana. A Zogno, decine di casi sospetti di Covid-19 furono scoperti nella casa di cura locale. A Lenna, un comune di cinquecento abitanti incuneato nelle montagne a quasi un’ora da Bergamo, il servizio emergenze chiese al sindaco un’area dove poter stazionare una seconda ambulanza.
Le morti
In poco tempo, l’enorme numero di chiamate, ricoveri e segnalazioni iniziò a trasformarsi in un numero mai visto prima di decessi. Il sindaco di San Giovanni Bianco, in Val Brembana, ha ricordato che nelle prime settimane di marzo i funzionari del piccolo ospedale cittadino venivano in comune una dozzina di volte al giorno per registrare un decesso. Nei paesi più colpiti, le chiese smisero di suonare le campane a morto perché altrimenti avrebbero dovuto farle suonare tutto il giorno. Le case di riposo si svuotavano lentamente, mentre decine dei loro ospiti morivano nei loro letti. In quei giorni, migliaia di famiglie di persone ammalate rinunciavano al ricovero e sceglievano di trascorrere a casa, accanto ai loro cari, le loro ultime ore di vita.
Insieme al sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Angeloni decise di creare una linea telefonica per gestire le domande dei parenti su come gestire i loro cari defunti. Normalmente, sono le pompe funebri ad occuparsi della burocrazia, ma in quei giorni, ricorda Angeloni «i servizi funerari erano andati per aria, con un numero di casi da gestire cinque o sei volte superiore alla norma la comunicazione con i parenti era completamente in tilt».
Al numero messo a disposizione dal comune rispondevano la sua assistente, un impiegato dell’anagrafe e lo stesso assessore. Le persone chiedevano informazioni, ma anche sostegno e conforto. Angeloni ricorda la chiamata di una ragazza di 19 anni a cui era morto il padre. Tutta la famiglia era positiva al Covid-19 e nessuno poteva partecipare al funerale. Quello che chiedeva era che l'assessore girasse un breve video della cerimonia, per avere un ultimo ricordo del padre.
I camion
Il problema più grosso era quello della cremazione. I morti erano così tanti che la lista di attesa era arrivata a tre settimane. La chiesa del cimitero monumentale si era riempita di bare e quella della vicina Serieta lo era altrettanto. Una soluzione possibile era quella di affidare i corpi alle pompe funebri affinché li portassero nei crematori di altre province. Ma per molte famiglie sarebbe stato un costo insostenibile: circa due euro a chilometro. Un’altra possibiltà era fare un’ordinanza che obbligasse le famiglie a scegliere l’interramento al posto della cremazione, come avevano fatto Brescia e Milano.
Per Angeloni, togliere alle famiglie anche quell’ultima scelta era troppo. Fu in quei giorni che, parlando con l’allora comandate dei carabinieri della provincia, il colonnello Paolo Storaro, ad Angeloni venne l’idea di chiedere aiuto all’esercito. Ci aveva pensato dopo che gli era tornato in mente un episodio accaduto nel 2009, quando durante il terremoto dell’Aquila lavorava per la Caritas. All’epoca il problema era che con le strade distrutte o danneggiate era impossibile per le agenzie funebri arrivare dagli obitori degli ospedali ai cimiteri dei piccoli paesi sparsi per la provincia. La soluzione che era stata trovata era quella di utilizzare veicoli militari in grado di muoversi su ogni terreno. Forse qualcosa del genere si poteva fare anche a Bergamo.
«Ne parlai col sindaco, ci abbiamo ragionato, poi abbiamo sentito il prefetto, il ministro della Difesa Guerini e quando abbiamo capito che c’era disponibilità abbiamo iniziato con i passaggi ufficiali», racconta Angeloni. Il 9 marzo, il comune inviò una lettera ufficiale alla prefettura. Il 10 arrivò la risposta affermativa e per la notte del 18 il primo trasporto era pronto. C’erano circa 60 bare sul convoglio ed erano destinate ai crematori di mezzo nord Italia, dal Piemonte al Friuli, dall’Emilia alla Romagna. La prefetta raccomandò di mantenere riservata la faccenda e così si decise di far viaggiare le bare di notte.
Quella notte Angeloni era presente al trasferimento, come lo sarebbe stato per tutti i viaggi successivi, 45 in tutto, l’ultimo alla fine di aprile. Ritornò a casa alle 3 di notte, esausto. La foto scattata dal giovane steward la vide per la prima volta la mattina successiva, quando suo zio che vive in California gli scrisse che Bergamo era sul Washington Post. La prima cosa che pensò fu che la prefetta non sarebbe stata contenta.
Oggi, quella foto «la guardo con orgoglio perché rappresenta il nostro modo di stare vicino alle famiglie e di rispettare le loro volontà». Ma quella foto ha finito con il rappresentare anche altro. In quei giorni, il comune era impegnato in una dura battaglia con le autorità regionali affinché venisse riconosciuta la gravità della situazione in città. Il sindaco Gori, insieme a giornalisti come Isaia Invernizzi dell’Eco di Bergamo, si erano resi conto che il numero di morti era molto superiore a quello comunicato dalla regione.
Ma dalla regione si rifiutavano di riconoscere che ci fossero decessi che sfuggivano alle statistiche. Secondo il presidente Attilio Fontana, chiunque mostrava sintomi Covid riceveva un tampone e tutti i decessi per Covid venivano regolarmente registrati. Non era vero, come venne scoperto in quei giorni. Circa metà delle persone morte per Covid a Bergamo non ha mai ricevuto un tampone e non è stata inserita nelle statistiche ufficiali. I timori sul reale numero di morti a Bergamo furono confermati in estate, quando l’Istat pubblicò la sua analisi dei decessi. Ma già la notte del 18 marzo, quando la foto dei camion iniziò a circolare, era divenuto impossibile negare la gravità della situazione a Bergamo e la pericolosità dell’epidemia.
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