Le isole sono spesso raccontate – da sempre – come un paradiso terrestre in cui fuggire lontano dalla miseria della vita metropolitana. In questi piccoli spazi di terra le contraddizioni e i limiti delle filiere alimentari e della provenienza del cibo si fanno però più evidenti
È durante l’immane viaggio che l’avrebbe portato alla scoperta delle isole delle Spezie, un gruppo di terre dell’arcipelago malese chiamate oggi Molucche, che Ferdinando Magellano arrivò a Napuka nel Pacifico. Le condizioni dell’equipaggio, stremato e prossimo al cannibalismo, l’assenza di acqua e la lunga rotta in un mare di nulla (il Pacifico) lo spinsero a fermarsi in questo ovale bucato di terra, da cui i marinai attraccati con le loro scialuppe non riuscirono a cavare nulla: né acqua, né cibo. Così sia Napuka che Nepoto furono da lui ribattezzate isole Sfortunate. Nel 1756 l’esploratore John Byron le chiamò – seguendo lo stesso spirito – isole della Delusione”, nome con il quale sono tutt’ora note.
Usate come geotag su Instagram per post ironici, le Isole della Delusione rappresentano il limite primario delle isole, quello dell’accessibilità alle risorse alimentari e idriche, i due pilastri su cui si fonda la vivibilità.
La lontananza delle isole, la loro piccolezza o solitudine è stata spesso narrata in una doppia veste: quella di paradiso per i viaggiatori moderni o di inferno per i marinai di un tempo. La presenza di un “nulla” intorno, su cui si erge un piccolo fazzoletto di terra, ne ha determinato la potenza attrattiva e romantica (talvolta idealistica) ma anche l’inabitabilità. Delle isole che esistono nel mondo, centinaia di migliaia, molte sono disabitate proprio perché non c’è nulla da mangiare, non c’è niente da bere.
Una metafora (anche a tavola)
Vivere in un mondo contemporaneo, estremamente globale e interconnesso, immaginando che ci sia un punto sulla terra in cui il cibo non può arrivare, sembra impensabile. Contro questo limite gli isolani e i continentali hanno combattuto a lungo con risultati contraddittori. «L’isola sembra essere un posto che, allo stesso tempo, è la realtà e la sua metafora», ha scritto Judith Schalansky nel suo Atlante Tascabile delle Isole Remote (Bompiani 2015). E se dovessimo metterla in relazione con le filiere alimentari, la metafora sarebbe tutto e il suo contrario. Sulle isole si può mangiare di tutto, sulle isole non si può mangiare niente.
Molto dipende dalla fortuna e altrettanto dalla distanza. Le isole più vicine alla terraferma e con climi favorevoli riescono ad approvvigionarsi in modo più semplice. Ma è un legame debole, pronto a incrinarsi alla prima intemperia. A giugno del 2023 il tribunale di Messina ha sequestrato nove navi della compagnia di navigazione che traghetta i turisti verso l’arcipelago delle Eolie. In quei giorni sfortunati, oltre ai vacanzieri, si fermarono anche i trasporti di beni primari come il cibo.
«Non possiamo far arrivare merci, carburante, medicine e tutto quello che ci serve per sopravvivere», commentò il sindaco di Lipari Riccardo Gullo. A qualcuno che ancora viva nell’illusione del chilometro zero, questa frase potrebbe spalancare gli occhi. Molto del cibo che circola nelle isole, dalle colazioni agli aperitivi, ha viaggiato chilometri prima di arrivare lì. Magari viene dallo stesso identico posto da cui arriva il barattolo che riposa sullo scaffale di casa nostra.
Vero cibo isolano
Certo la lotta per l’autosufficienza è una battaglia impari e, per certi versi, inutile. Tuttavia qualche risultato l’ha prodotto. A Lanzarote, un puntino di terra vicino alle coste del Marocco, l’acqua potabile e quella piovana sono scarsissime: non piove quasi mai, l’isola è prevalentemente vulcanica straordinariamente fertile.
L’indipendenza idrica è stata raggiunta da un processo ingegnoso di desalinizzazione dell’acqua marina. Così il mare, il limite più grande di un’isola, è diventato anche una risorsa. Vale lo stesso per il vulcano: proprio qui infatti le particolari condizioni del suolo hanno spinto gli agricoltori a lavorare la terra in modo ingegnoso. Ne sono nate molteplici coltivazioni in aridocultura, tra esse quella della vite che è diventata un’icona di qualsiasi viaggio a Lanzarote. La Geria, la strada del vino lunga quasi 20 chilometri, è punteggiata da rotondi che sembrano degli ombelichi, dal cui centro spuntano viti basse. Il vino è una costante di tutti i ristoranti, bistrot ed enoteche canarie. Il risultato? È diventato un bene d’importazione, una merce di scambio con il continente.
«Si può essere molto felici su un’isola», ha scritto Silvia Ugolotti, nel suo libro L’inquietudine delle isole (Ediciclo 2018), «ma è una conquista lenta e costante, che richiede più di un adattamento: fisico, biologico e mentale». Un messaggio che la terra di Lanzarote sembra aver ascoltato ed elaborato.
Un’altra storia di i-solitudine e ingegno è quella delle isole Fær Øer, dove non è raro vedere carni e pesci appesi all’esterno delle case, una tecnica di asciugatura e conservazione del cibo, che permette di superare la scarsità alimentare che affligge queste piccole terre.
Agricoltura estrema
Ma non tutte le isole sono fatte di spiagge e vegetazione. La Groenlandia per esempio è l’isola più grande del mondo con una superficie ricoperta per lo più di ghiaccio. Per giocare con i paradossi: si può essere vegani in Groenlandia? Il sito HappyCow dice che i ristoranti vegani di tutto il territorio sono cinque: è plausibile, sebbene non certo, che molte delle verdure e degli ortaggi arrivino dalla Danimarca, da cui la Groenlandia dipende per le importazioni poiché il settore agricolo è scarsamente sviluppato.
Alle Isole Svalbard, che vivono condizioni simili, lo chef Benjamin Vidmar ha orchestrato un sistema per mettersi alla prova con l’agricoltura artica in una forma estrema. Ha costruito una sorta di serra-igloo per coltivare capace di mantenere la temperatura a 25°.
Di certo c’è che il legame tra cibo e isole, è raccontato anche dalla toponomastica. A partire proprio dalle famose isole delle Spezie, nevralgico nodo commerciale di antiche rotte. Ma anche dall’Isola del Sale a Capoverde con una salina in disuso nel cratere di un vulcano. Le isole Sandwich (che poi era anche il nome coloniale delle Hawaii) si trovano nell’Atlantico meridionale e hanno preso il titolo da quel conte di Sandwich a cui è attribuita l’invenzione del famoso panino.
E poi ci sono anche le isole che prendono soprannomi gastronomici: Sao Tomè è l’isola del caffè e del cacao, Mauritius è l’isola dello zucchero, Tahaa in Polinesia è l’isola della vaniglia. Dal colonialismo storico a quello turistico il passo è breve: il cibo può giocare sempre un ruolo centrale, soprattutto nello storytelling.
Deserti alimentari
Eppure non serve andare lontano per notare le contraddizioni e le criticità delle gastronomie isolane. Vicino a noi c’è il caso di Venezia. Da sempre luogo di passaggio per merci da tutto il mondo (cibo compreso), oggi Venezia – che non è un’isola bensì un insieme di isole – si trova ad ospitare milioni di turisti ogni anno. E sebbene ci siano bacari, ristoranti e bar ad ogni calle e ad ogni campo, è impensabile ritenere che i quasi 50mila posti letto turistici siano sfamati solo dal cibo che viene da qui. O dalla vicina isola di Sant’Erasmo, l’orto di Venezia, che pure fa produzioni agricole eccezionali.
«I piccoli stati insulari in via di sviluppo devono affrontare numerose sfide. Per un numero significativo di essi, la lontananza incide sulla capacità di far parte della catena di approvvigionamento globale», avverte la World Tourism Organization. E se non bastasse c’è la crisi climatica, l’innalzamento delle acque, l’erosione delle coste e l’esposizione ai fenomeni climatici estremi. Siamo ancora sicuri che l’isola sia un paradiso? O perlomeno, gastronomico?
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