Ogni persona dovrebbe sentirsi libera di fare figli quando (e se) vuole, senza pressioni o giudizi. Ogni donna ha un periodo limitato per fare figli, al di fuori del quale concepire è impossibile. Le due frasi sono entrambe vere, ma creano un cortocircuito: perché la biologia limita la libera scelta.

Una gravidanza dipende infatti soprattutto da due fattori, gli spermatozoi e gli ovuli: gli uomini continuano a produrne per tutta la vita; le donne invece hanno una riserva definita, che si deteriora e riduce con il passare degli anni, fino a esaurirsi con la menopausa. A quel punto, l’unica possibilità è utilizzare un ovulo giovane (di una donatrice oppure – circostanza rarissima – uno proprio congelato anni prima).

L’ETÀ MIGLIORE DAL PUNTO DI VISTA BIOLOGICO

La fertilità femminile è all’apice tra i venti e i trent’anni; eppure l’età media al primo figlio aumenta in tutto il mondo, e nelle nazioni avanzate questo è un problema. L’Italia è il Paese con le madri più vecchie d’Europa: in media il primo figlio arriva a 31,6 anni, quando negli anni Cinquanta si faceva a meno di ventisei, e anche solo nel 1995, a 28. 

Anche per questo, il tasso di fecondità oggi è sceso a 1,24 figli per donna. «E tu senti che c’è qualcosa di sbagliato, di falso, senti che forse è paradossale rendersi sterile durante tutti gli anni della maggiore fertilità per poi cercare disperatamente di essere fertile quando oramai non lo sei quasi più» dice Giò, una delle quattro protagoniste della pièce teatrale CallForWomen, scritta da Ippolita di Majo e messa in scena lo scorso 8 marzo con la regia di Paola Rota al teatro Mercadante di Napoli (dove Giò era interpretata da una straordinaria Caterina Guzzanti) e in altri quattro teatri italiani per celebrare la festa della donna.

«La spinta a scrivere è nata dalla rabbia», dice l’autrice, per «questa menzogna che viene raccontata sul corpo delle donne», per il mondo del lavoro che le discrimina se hanno – o anche solo desiderano – figli, per tutte quelle costrette a mettere nel cassetto i progetti di maternità. Quando quel cassetto si riapre, a volte è troppo tardi. Lo spettacolo è una bomba di divulgazione che meriterebbe di scoppiare in teatri e festival, a partire da quelli femministi: mette in luce le difficoltà di far convivere maternità e carriera, la verità su come funziona il corpo. Perché no, a trentacinque anni non si è “ancora giovani” come molti vorrebbero far credere. Non dal punto di vista riproduttivo.

LO SPETTRO DELL’INFERTILITÀ

Le ragioni che portano a posticipare i figli – il tema alla base, fin dal nome, del progetto “The Why Wait Agenda” – possono essere professionali o economiche, ma ce ne sono anche altre. Tra le più comuni c’è l’infertilità. «Ho cominciato a cercare un figlio a ventun anni» racconta Elena: «Tra omologa, eterologa ed embriodonazioni, avrò fatto in tutto venti tentativi di pma», la procreazione medicalmente assistita. Alla fine, dalla Toscana Elena deve arrivare fino a Milano per trovare finalmente dei medici in grado di individuare la causa, un problema di coagulazione. Dopo una cura a base di eparina e un ennesimo tentativo di fecondazione assistita andato a vuoto, Elena a 41 anni rimane incinta naturalmente: «Se si fossero accorti prima del mio problema, non avrei perso vent’anni» dice, ma senza rabbia.

Anche perché la sua storia ha un ulteriore lieto fine. Chiusa la relazione col padre di quella prima figlia cercata tanto a lungo, Elena incontra un nuovo amore di diciassette anni più giovane. Di ricominciare con la pma neanche a parlarne: «Il desiderio di un figlio con lui c’era, ma non me la sentivo di riaffrontare tutto il percorso». Ma dopo quattro anni di relazione, a sorpresa Elena resta di nuovo incinta: «Secondo i medici, l’età del mio compagno ha aiutato».

Oggi, a 52 anni, è madre di una bimba di undici anni e uno di tre: «Sono consapevole di aver vissuto un miracolo, e non sono da prendere a esempio! A volte mi dicono “ah ma io ne ho 45, allora ho ancora speranza”. Io non voglio togliere la speranza a nessuno, ma il mio consiglio è di muoversi, cercare il medico giusto».

Perché dopo i 42-43 le probabilità di concepimento sono aneddotiche e il rischio di aborti è «estremamente alto, a causa delle anomalie cromosomiche embrionali, direttamente proporzionali all’età materna» conferma la ginecologa Daniela Galliano, responsabile del centro pma Ivi a Roma.

PROCREAZIONE ASSISTITA E IL SEGRETO DELL’ETEROLOGA

Non di rado le gravidanze over 40 sono ottenute grazie alla fecondazione eterologa. Com’è accaduto a Nina, che dopo aver cercato invano un figlio fin da quando aveva trent’anni, a quaranta ha adottato una neonata. Sette anni dopo ha avuto un secondo figlio grazie all’ovulo di una donatrice spagnola: «Dato che avevo 47 anni mi avevano prospettato una probabilità di successo del 10-15%; ma ci è andata bene al primo tentativo!».

Nina non è il suo vero nome, perché lei e il marito non hanno detto a nessuno di aver fatto ricorso all’ovodonazione. Vivono in una cittadina del nord e temono il giudizio della gente: «C’è tanta ignoranza» dice Nina, che già con l’adozione aveva affrontato commenti intrisi di «disinformazione e preconcetti, “eh ma non è figlia tua” mi dicevano».

Invece per lei non cambia niente: «Sono comunque entrambi figli miei». Nemmeno i nonni conoscono la verità. E il bambino? «Glielo diremo quando sarà adulto, forse». Spesso si nasconde di aver fatto ricorso alla pma «per paura di chi ritiene che debba essere la natura a decidere quando, come e se far arrivare figli» spiega Galliano: «Ma meno se ne parla, più ci si sente soli».

SE L’AMORE ARRIVA TARDI

In tutta Europa le ultraquarantenni che fanno figli sono più che raddoppiate negli ultimi vent’anni: i nuovi nati con mamme “senior” erano il 2,4% del totale nel 2001, nel 2019 erano saliti al 5,4%. In Italia la quota è addirittura l’8,4%; sui social network si trovano ormai tanti gruppi dedicati alle “mamme over 40”. A volte dipende dal fatto di aver trovato tardi il partner giusto. Com’è successo a Sara: il suo precedente compagno «era molto infantile, e non aveva voglia di figli».

A trentott’anni conosce il suo attuale marito, e «un bimbo l’avremmo fatto anche subito», ma da una visita medica emerge un diabete che va gestito prima di cercare una gravidanza. Per Sara il figlio tardivo, partorito appena prima di compiere 44 anni, non è stato una passeggiata. «Mi è venuto il mal di schiena, il tunnel carpale, problemi d’ansia».

Da libera professionista, per lunghi periodi ha dovuto smettere di lavorare: «Adesso ho ricominciato, ma devo comunque rinunciare a molti incarichi» perché la gestione del bambino è quasi tutta sulle sue spalle. C’è anche «un senso di colpa per il fatto che avrà dei genitori anziani: magari a venticinque anni si troverà senza nessuno». Per questo hanno fatto un’assicurazione, aperto per lui un conto risparmio, e comprato la casa in cui vivono «perché abbia una base sicura. Cerco di stare più in salute possibile, ma ho questo patema».

Anche Isabella, classe 1972 e oggi mamma di una bambina di sette anni, ha incontrato l’anima gemella tardi. Nel suo caso non c’era stato, prima, nessun desiderio di maternità. Era rimasta incinta due volte, a vent’anni e a trent’anni, con due partner diversi, ed entrambe le volte aveva scelto l’interruzione di gravidanza: «Un figlio ti lega per sempre», spiega, «e sapevo già di non amare gli uomini con cui stavo in quel momento».

Poi a 44 anni, con un po’ di amarezza per l’esperienza di maternità mancata ma senza più nutrire aspettative in quel senso, avvia una relazione con un uomo alle soglie dei cinquanta, anche lui senza figli. Nell’intimità non prendono troppe precauzioni: «Ci vedevamo solo una volta alla settimana, e lui stava “attento”».

Eppure nel giro di sei mesi Isabella si ritrova incinta. Stavolta nemmeno per un attimo pensa di abortire: «Per me è stato un dono. La ginecologa mi disse: “hai gli esami del sangue di una ragazzina”. Ma non abbiamo mai pensato di bissare, anche perché ad aiutarci c’è solo mia suocera che oggi ha ottant’anni».

Prima di tutto questo, Isabella aveva pensato di tatuarsi sul corpo il nome che avrebbe dato alla sua figlia mancata. Il tatuaggio non l’ha mai fatto: ora c’è una bimba in carne e ossa che porta quel nome.
In Italia il problema della natalità «non dipende dal diritto all’aborto, ma da un sistema completamente inadatto a sostenere la maternità»: con queste parole si chiude la pièce di Ippolita di Majo.

Se il sistema cambiasse, e la maternità fosse sostenuta, forse molte persone smetterebbero di rimandare la scelta di diventare genitori. E la curva dell’età media delle madri, in salita da decenni, potrebbe cambiare traiettoria.

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