Tre intimidazioni in una settimana, a cavallo del turno di ballottaggio. Un proiettile e una lettera di minacce indirizzata al deputato del Pd Claudio Stefanazzi e all’assessore regionale della giunta Emiliano Alessandro Delli Noci; e un’altra lettera minatoria arrivata a casa dell’ex assessora comunale alla cultura Fabiana Cicirillo, tanto che sabato 6 luglio è arrivato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi a presiedere il comitato per l’ordine e la sicurezza.

È la scia avvelenata della campagna elettorale per il sindaco di Lecce, vinta da una vecchia conoscenza della città: Adriana Poli Bortone, già parlamentare missina e ministra con An, poi sindaca per due mandati durante i quali fu lambita ma mai condannata per una serie di scandali giudiziari. Ritorna al comando del capoluogo con due potenti sponsor alle spalle, insediati nel potere profondo del governo Meloni: i salentini Raffaele Fitto e Alfredo Mantovano. E soprattutto sulla spinta di due eserciti: le truppe cammellate del senatore leghista Roberto Marti e i “vichinghi” di Casapound, beneficiari dei fondi Pnrr stanziati dal sindaco postfascista di Nardò, Pippi Mellone.

Sono stati proprio i militanti di Casapound gli artefici della metamorfosi social della neosindaca 81enne, che ha spopolato su tik tok con la sua allure da Marine Le Pen salentina. L’esibizione come dj nei lidi balneari, i colori giallo e viola della campagna, i video domestici da nonna che cucina il risotto o annaffia i fiori portano la firma di una società di marketing politico chiamata Ragnar, come il protagonista della serie Vikings. «Siamo cinici, politicamente scorretti: la politica è un campo di battaglia e vincere è la nostra unica missione», si legge sul sito, il cui dominio è riconducibile alla Stonks web agency di Andrea De Giorgi, referente di Casapound a Nardò.

La mano dei neofascisti

Il fondatore è Agostino Indennitate, portavoce di Pippi Mellone, il sindaco famoso per il video che lo immortala a braccio teso durante la cerimonia del presente al “camerata Sergio Ramelli”. Sarà un caso ma esattamente all’inizio della campagna elettorale leccese, il 23 maggio, il comune di Nardò ha affidato alla Stonks web agency di De Giorgi un incarico diretto per 20.800 euro per curare la piattaforma marketing di un progetto finanziato dal Pnrr. Il titolo è “Azienda agricola sostenibile” e prevede una specie di bollino di qualità ambientale ma anche lavorativa nell’agricoltura di Nardò, in passato segnata da episodi di caporalato.

Un’ottima idea, in teoria; come funzionerà è però un mistero. «Ancora non lo abbiamo formalizzato», risponde candidamente il portavoce Indennitate: «Il progetto intanto è stato finanziato, adesso bisogna svilupparlo per bene». Di certo i militanti di Casapound nell’ultimo mese e mezzo hanno dato anima e corpo alla campagna elettorale del centrodestra leccese.

Il Salvini di Lecce

Più che sui social, però, il ballottaggio è stato vinto dalla destra nelle periferie. La sinistra ztl che vince al centro e perde ai margini non è una novità; nel caso del capoluogo salentino però c’è stato qualche sospetto in più. Per capire perché occorre riavvolgere il nastro. Il venerdì prima del turno di ballottaggio l’aria in piazza Sant’Oronzo, dove si è appena concluso il comizio finale del candidato del centrosinistra Carlo Salvemini, è pesante. «Siamo preoccupati», dice a margine del palco Maurizio Buccarella: già senatore per due legislature con i 5 Stelle, in questa tornata amministrativa si è candidato in una lista civica e durante tutta la campagna elettorale ha battuto sul pericolo di voto di scambio. «Dobbiamo vedere cosa succede nei giorni delle votazioni nelle sezioni della 167 che in passato sono state spesso il luogo della compravendita di preferenze», aveva detto Buccarella 48 ore prima delle votazioni.

Passano 48 ore e i seggi elettorali ubicati in piazza Palio brulicano di elettori: è il centro della 167, uno dei tanti quartieri periferici nati con la legge sull’edilizia popolare. Spianate di asfalto su cui si affacciano palazzi multipiano di proprietà Arca Sud, l’agenzia regionale per l’edilizia popolare. Facciate tutte uguali con tre varianti: righe bianche e arancioni, righe bianche e marroni, righe bianche e gialle. Un crocchio di persone in attesa davanti ai seggi. «L’Adriana vince, poi vedi. L’Adriana e lu Robertinu», si sbraccia un uomo, occhiali da sole in testa e tatuaggi in bella vista. «Lu Robertinu chi?», chiediamo. «Roberto Marti, no? Lu senatore». «Quello della Lega?». «Mo’ è della Lega, prima era di Fitto, domani magari cambia. Per me è sempre un amico», conclude. Il senatore Marti, barba grigia e borsello nero, si aggira tra i seggi come fosse a casa propria. Così a casa propria che in serata verrà fotografato stravaccato sulle scale della scuola in cui si stanno svolgendo le votazioni; intorno a lui due carabinieri e un agente di polizia che lo invitano a mettersi in piedi e a non stazionare in prossimità dei seggi elettorali.

È questo quartiere il feudo elettorale di “Lu Robertinu” partito dalla giunta di Lecce per arrivare alla presidenza della Commissione Cultura del Senato. Assessore comunale quindi consigliere regionale nelle liste di Raffaele Fitto; e poi, da esperto funambolo, atterrato con una capriola nella Lega sulla poltrona di deputato. È dunque coperto dall’immunità parlamentare quando scoppia l’inchiesta della procura di Lecce intorno al “mercato” delle case popolari della 167.

Tutto nasce nel 2016 sull’onda della morte di Giuseppe Fiorentino, un senzatetto che era stato minacciato e costretto a abbandonare la casa popolare cui aveva diritto e poi ritrovato morto di stenti per strada. Indagando sulla morte di Fiorentino, i pm Roberta Licci e Massimiliano Carducci avevano scoperto il racket degli alloggi: in cambio di voti le assegnazioni provvisorie diventavano definitive, le occupazioni abusive venivano sanate. E poi l’episodio più incredibile: l’assessorato alla casa che prima ipotizza di rimborsare un b&b ad Antonio Briganti, fratello del boss della Sacra corona unita, la mafia leccese, Pasquale Briganti, e poi gli consente di trasferirsi, attraverso un escamotage, in una villetta confiscata proprio alla criminalità organizzata.

Mentre un 66enne moriva di stenti senza un tetto sulla testa, quindi, il fratello del boss si godeva una villetta requisita alla mafia e formalmente assegnata a una associazione benefica. Un aiuto illecito che sarebbe avvenuto su sollecitazione di Marti, all’epoca deputato: questa, per lo meno, era l’ipotesi della procura di Lecce. L’accusa poggiava su alcune intercettazioni, sulla cui utilizzabilità Marti ha però combattuto una battaglia furibonda lunga due anni, durante i quali Camera e Senato si sono palleggiati la responsabilità dell’autorizzazione. Gli uomini della guardia di finanza erano incappati in Marti mentre ascoltavano le telefonate degli ex assessori Attilio Monosi e Luca Pasqualini.

Per i pm e per il gip quelle intercettazioni erano utilizzabili perché casuali; per la difesa di Marti, invece, si trattava di intercettazioni indirette quindi non utilizzabili. «Per la procura di Lecce il senatore Marti era tra i promotori dell’associazione a delinquere», spiega il legale del senatore, Giuseppe Corleto «quindi intercettando i suoi interlocutori abituali in realtà la finanza sapeva di poter intercettare anche lui». Una tesi ardita, visto che telefonate e sms che vedevano Marti protagonista erano una ventina su 1.116. Ardita ma nel 2021 accolta dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato presieduta da Maurizio Gasparri e di cui faceva parte lo stesso Marti.

Le intercettazioni erano inutilizzabili, secondo l’organo parlamentare, per cui alla procura di Lecce non è rimasto che prenderne atto e archiviare la posizione. Il senatore leghista così è in piena attività politica e dell’elezione di Poli Bortone a Lecce è indiscutibilmente il kingmaker. E che ora dovrebbe piazzare quattro assessori su dodici nella giunta del capoluogo salentino. E tornare a contare come un tempo nei corridoi del comune.

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