Nel 1996 i provider di ricerca e social sono per legge semplici postini. L’amministrazione Clinton nel 1996 dette una potente spinta alla sopravveniente diffusione dei vari Google e Facebook. Merito del paragrafo 230 del Decency Act (legge sulla correttezza) per cui «Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi internet – in sostanza: né i motori di ricerca né le piattaforme social – può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi». Una garanzia contro avvocaticchi affamati di class action, basata sul postulato che i provider di servizi e piattaforme siano per natura loro estranei e non responsabilizzabili per i contenuti che si trovano a smistare; né più né meno come il postino per il contenuto delle buste, il proprietario di un palazzo per le scritte che lo imbrattano, il parcheggiatore per la refurtiva dentro un bagagliaio, il libraio per le parole annidate in qualche pagina, la prenotazione sanitaria per l’esito negativo di una cura. Il punto chiave di tutte queste situazioni è che svolgono il servizio con procedure cieche rispetto al contenuto e/o del tutto prive di margini di discrezionalità nell’eseguirlo. Mentre il punto centrale delle big tech è che conoscono i contenuti creati dagli utenti (come le domande di ricerca o i post dei social) e li aggregano e promuovono per moltiplicare e insaporire i contatti pubblicitari. Che non sono entrate marginali, ma la fonte dominante dei ventimila miliardi ricavati negli ultimi venti anni decostruendo interi mondi editoriali preesistenti.

Editori-aggregatori

Del resto “aggregare e promuovere”, selettivamente, il contenuto generato dall’utente è il modo specifico col quale le big tech svolgono, con le dovute differenze, la funzione editoriale. Funzione altra rispetto al produrre libri o al sottoscrivere editoriali su un giornale, ma di identica sostanza. Del resto è sempre esistita un’editoria del ritaglio che incolla comunicati e veline (di marketing commerciale o politico) decidendone il risalto nei titoli e nell’impaginazione.

Il modo attraverso cui le big tech fanno gli editori si avvale, com’è ovvio, del supporto tecnologico, mettendo al lavoro algoritmi. Questi sono progettati su misura degli obiettivi editoriali dell’impresa per conoscere i contenuti e mixarli entro meta testi se e quando pare il caso di promuoverli in funzione dei parametri di traffico e di ricavi che paiono promettere.

Così Google: 1) analizza la richiesta dell’utente; 2) compone a modo suo la graduatoria dei siti che possono pagarla (ma senza che compaia) per stare in bella vista; 3) profila il curriculum di azioni e reazioni di Liz, Ahmed e Mario; 4) offre – altro che muro, libraio o postino – pubblicità mirate a profili singoli o aggregati.

Non minore è la creazione di contenuto dei sistemi social, che ricalca tutte le caratteristiche elencate per Google aggiungendovi la “gestione e promozione di tendenze”. In pratica l’algoritmo di Facebook e compagnia non se ne sta placido a osservare le risse e le coccole fra account, ma coglie al volo o s’inventa, come s’usa fra i giornali, il “notiziabile”, inteso come ciò che attrae e pompa l’andirivieni di reazioni, di contatti, di ricavi.

Per non dire di news feed e censura. Coi primi, introdotti da Zuckerberg attorno al 2010, Facebook e gli altri plasmano una sorta di agenda setting mirato alle bolle autorinchiuse in cerchie come fa per i suoi fan l’editore di Playboy. Con la censura, potere editoriale non da poco, i social temperano – o mostrano almeno di provarci – la produzione “scandalosa” che urta il contesto di buona creanza preteso dai pubblicitari degli articoli di massa (da cui giunge il grosso dei ricavi) e dai politici che protestano turbati dai fake e dagli sfoghi d’odio che hanno trovato il loro Hyde Park Corner della rete.

La contraddizione

Da decenni, al dunque, è chiaro che le imprese di ricerca e social nate sotto la protezione dell’umile, passivo e neutro ruolo del provider prosperano grazie al ben diverso e iperattivo ruolo dell’aggregatore che i contenuti li vaglia, accorpa e promuove come gli conviene.

La contraddizione fra l’assenza di responsabilità editoriale del ruolo assegnato formalmente dalla legge e la pratica tecno-editoriale del modello di business è ovvia e costituisce una mina sul futuro delle imprese. Per questo le big tech stesse amerebbero essere regolate da governo e Congresso con la fissazione per legge del dovere e dei criteri di censura, così da esserne semplici attuatori e non portarne la responsabilità verso chi si trovano a offendere.

Cercano, in sostanza, un bozzolo protettivo “imposto” dalla legge non dissimile, sia detto di passata, da quello di cui l’occidente liberale mena scandalo quando addita le norme social della Cina. È perfino probabile che questo colossale e ipocrita inciucio fra politica e affari riesca a vedere la luce prima o poi fra le lodi di centinaia di esperti di costumi e di morale che per le “regolazioni” e i relativi comitati di attuazione e sorveglianza, vanno matti.

Il nodo alla Corte suprema

Ma intanto proprio in Usa le big tech e il governo (che alle brutte le spalleggia) se la vedono con una grana attizzata, a dispetto delle legioni progressiste, dalla destra repubblicana che la dimensione social dell’odio l’ha lucidamente colta e la sfrutta fino dai primordi. Tant’è che, altro che censura, vuole che scorrazzi forte del primo emendamento (che sancisce la libertà d’ogni americano di dire e scrivere quello che gli pare). Ecco allora che Florida e Texas, Stati governati dalla destra, se ne escono con leggi che ripescano il dimenticato ruolo dei provider come intermediari passivi per impedirne le censure.

Le big tech – attraverso le loro emanazioni NetChoice e Computer&Communications Industry Association – sono istantaneamente corse a spegnere le fiamme appellandosi ad altre corti e infine alla Corte suprema – plasmata da Trump – che dirà la sua entro giugno dovendosi ricordare di essere stata plasmata da Trump e pressata dall’umore dei relativi elettori che il bando del loro eroe dai social mai hanno digerito.

Nei precedenti gradi di giudizio le big tech, sempre appoggiate dal governo, hanno sostenuto – attenzione! – proprio la tesi che, come i giornali, sono libere di pubblicare o non pubblicare ciò che vogliono, senza che alcun potere governativo interferisca. E così esse stesse hanno demolito quel pilastro della irresponsabilità che ne ha protetto le avventure e le fortune. Ma a Florida e Texas è stato fin troppo facile controbattere che le piattaforme internet sono, e hanno sostenuto per decenni di essere, semplici vettori che inoltrano testi senza badare al contenuto.

La Corte suprema si pronuncerà a giugno e, dovesse mai dare ragione a Florida e Texas, l’intero business dei motori di ricerca e, specialmente, dei social, ne verrebbe sconvolto. La partita è ovviamente aperta, perché è facile prevedere che la Corte sia strattonata in direzioni opposte da componenti elettorali della destra. Da un lato la tribù dei miliardari incubatori del web-business e il ventaglio di piccoli e medi risparmiatori che di quelle aziende posseggono i titoli e ci contano per pagare l’istruzione ai figli e garantirsi comunque la vecchiaia. Dal lato opposto le legioni “popolari” di elettori di ultra destra, dai bianchi rurali ai blue e white collar che si sfogano con i post. Odiosi agli occhi nostri, ma per loro semplice buon senso.

Mentre si svolge tutto questo, immaginiamo il tormento dei filosofi dei social, innamorati dei loro web-giocattoli, costretti a decidere se siano meglio passivi e non responsabili, o alacri guardiani dell’Ordine mentale e morale prevalente. Magari misurandosi anche col problema che sta sotto a tutto questo: l’anonimato degli account rivenduto come rispetto e garanzia della privacy e in realtà pacchia del marketing politico che agisce mascherato e delle polizie che tracciano serene chi crede di nascondersi.

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