- Le foto satellitari di Maxar Technologies ottenute da Domani mostrano il luogo dell’esplosione nel centro di detenzione di Gharyan. A pochi passi un deposito di munizioni.
- I migranti respinti in Libia erano arrivati nel centro qualche giorno prima. Respinti e ammassati in stanzoni fatiscenti.
- L'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari di Tripoli teme che potrebbero esserci centinaia di vittime. Domani ha raccolto anche la testimonianza di un sopravvissuto.
Abu Rashada. Regione dei monti Nafusa, 100 km a sud-ovest di Tripoli. Qui c’è uno dei centri di detenzione per migranti gestiti dal governo libico, lontano dalle coste, lontano dagli occhi dell’Europa. Talmente distante da non suscitare nessun clamore né per gli uomini armati presenti a guardia di chi fugge da guerre e fame né per una esplosione che potrebbe aver provocato molti morti. Esplosione di cui le autorità non ne hanno dato notizia, nascosta per giorni. Deflagrazione avvenuta nei pressi delle celle dove vengono stipati uomini, donne e bambini respinti in Libia dalla guardia costiera locale finanziata con i soldi europei e italiani.
La devastazione provocata dalla detonazione nel centro di detenzione Abu Rashada a Gharyan è visibile nelle foto satellitari di Maxar Technologies, società che si occupa di aerospazio, ottenute da Domani. A pochi passi dal luogo dell’esplosione sono detenute circa 600 persone. Secondo un funzionario locale delle Nazioni Unite un deposito di munizioni è a pochi metri dalle prigioni dove vengono riportati i migranti intercettati nel Mediterraneo. Nelle foto satellitari ottenute si vedono anche carri armati e un cannone d'artiglieria stazioni a pochi metri dal centro di detenzione.
«Temo che ci siano decine di morti. La milizia che controlla il centro ha un deposito di armi e i suoi uomini sono coinvolti nel traffico di carburante nel deserto», racconta un funzionario del Dipartimento per il contrasto alla migrazione (DCIM) del ministero dell’Interno libico. La conferma dell’esplosione - avvenuta nel pomeriggio del 20 giugno - arriva anche da fonti delle Nazioni Unite che però ribadiscono: «Non abbiamo accesso al centro». Fonti mediche dell’ospedale di Gharyan dicono che i feriti sarebbero tre, colpiti da proiettili di armi da fuoco e con fratture. Due sarebbero minori. Secondo una stima, nella cella più vicina al luogo dell’esplosione, erano rinchiuse almeno 60 persone.
L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari di Tripoli teme che potrebbero esserci centinaia di vittime. «Sarei sorpreso di sapere che non ci sono feriti», ribadisce Justin Brady un rappresentante della divisione umanitaria delle Nazioni Unite.
Nelle celle c'erano anche siriani, algerini ed egiziani. «È successo alle 7 di sera. Tutto è iniziato nel magazzino di munizioni: era l'ultima stanza sul retro del centro di detenzione», ha raccontato a Domani un sopravvissuto, che aggiunge: «Le guardie stavano saldando delle sbarre di ferro, ma una scintilla ha colpito il deposito di munizioni, il fuoco è scoppiato e si è esteso, ed è qui che è avvenuta l'esplosione. Siamo riusciti a scappare. Ci siamo nascosti nelle montagne e abbiamo scoperto che c'erano dei feriti, che erano fuggiti con noi».
La fuga
Usama Halfaoui, il direttore del centro di Gharyan, contattato da Domani spiega che l’incidente è stato innescato a causa dello scoppio di un bombola del gas in una sezione del centro e le fiamme si sono propagate nelle celle: «Abbiamo fatto uscire i migranti e alcuni di loro hanno tentato la fuga. Non ci sono morti, né feriti». Ma una caccia all’uomo è iniziata nelle montagne circostanti: «Hanno sparato alle persone che hanno tentato di fuggire», ha confermato un altro funzionario del ministero dell’Interno libico. Sono circa 200 i migranti riportati nel centro dopo la ricerca di chi era scappato terrorizzato dalle fiamme e del boato.
Qualche giorno prima dell’esplosione erano arrivate a Gharyan centinaia di persone. Respinte al largo delle coste libiche dalla guardia costiera e poi ammassate in stanzoni fatiscenti. Due piccole finestrelle da cui passa poca aria e poca luce. Stipati l’uno accanto all’altro, con temperature oltre 40 gradi. Secondo quanto emerge da un documento ottenuto da Domani «le condizioni a Gharyan sono brutali. Un tentativo di fuga lo scorso aprile è costato la vita a due sudanesi, morti con un colpo alla testa».
Continuano i respingimenti per procura
Oltre 13.000 persone sono state riportate in Libia dalla Guardia Costiera; una cifra che ha già superato quelle intercettate in tutto il 2020. E l’unico attore rimasto in mare insieme alla Guardia Costiera Libica sono le navi mercantili.
Lo scorso 14 giugno la Vos Triton, bandiera di Gibilterra ma proprietà di una compagnia con sede in Olanda (la Vroon), ha raggiunto 200 migranti e li ha consegnati alla guardia costiera libica. Ed è solo l'ultimo di numerosi episodi di «respingimento per procura» in violazione dei diritti umani, che l’Organizzazione non governativa Sea Watch ha documentato grazie alle riprese dal suo aereo di ricognizione Seabird.
Nella notte tra il 13 e il 14 giugno scorsi, «le autorità, Frontex e l’Unhcr, venivano aggiornate via e-mail con tutte le informazioni rilevanti e le posizioni Gps» si legge in un report congiunto di Mediterranea Saving Humans, Sea Watch, e Alarm Phone.
Come di prassi, dopo lo sbarco, i sopravvissuti sono stati scortati nei centri di detenzione di Al-Mabani e nel deserto fino a Gharyan, il centro dove sette giorni più tardi avverrà l’esplosione. Gli autobus utilizzati per i trasferimenti sono stati forniti dal ministero dell’Interno italiano. Assistenza materiale, tecnica e politica, finanziata dal Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa (un finanziamento di 46 milioni di euro) con l’obiettivo di rafforzare le capacità operative delle autorità libiche nelle attività di gestione dei confini terrestri e marittimi. Traduzione: facilitare il ritorno di migranti e rifugiati alle crudeli e disumane condizioni di tortura nei centri di detenzione del paese.
Negli ultimi mesi sono stati aperti nuovi centri nel deserto libico, sulle montagne occidentali della Libia, lontani dalla costa e controllati da gruppi armati vicini al capo del Dcim, il colonnello Mabrouk Abd al-Hafiz. Il nuovo piano, anche questo supportato dall’Italia e finanziato dall’Europa prevede pattuglie nel deserto: attrezzature dell'UE per la gestione delle frontiere, che le autorità libiche riferiscono essere made in Italy.
Una delegazione del Dipartimento per il contrasto alla migrazione (DCIM) del ministero dell’Interno libico è tornata a Tripoli da pochi giorni dopo una visita ufficiale a Roma. Inviti ormai periodici, e un piano sempre più chiaro: spostare le frontiere europee sempre più a sud. «L'Italia ha fornito alcuni fuoristrada. Lo sanno che il loro aiuto sta contribuendo al traffico di esseri umani, il contrabbando di carburante, il traffico illegale di droghe e la prostituzione. Ma continuano il loro supporto», ha ribadito una fonte del Dcim. «Ci sono stati morti a Gharyan. Qui non esistono i diritti umani», conclude.
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