La straordinaria conoscenza del fenomeno mafioso acquisita da Mario Francese è evidenziata dal dossier che egli aveva redatto, e che venne pubblicato dopo la sua morte sul supplemento settimanale del “Giornale di Sicilia”, in più puntate. La pubblicazione fu soltanto parziale, come ha chiarito il figlio della vittima, Giuseppe: non fu pubblicata infatti la parte del dossier riguardante l’on. Salvo Lima
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La straordinaria conoscenza del fenomeno mafioso acquisita da Mario Francese è evidenziata dal dossier che egli aveva redatto, e che venne pubblicato dopo la sua morte sul supplemento settimanale del “Giornale di Sicilia”, in più puntate, con decorrenza dall’11 marzo 1979, proprio per ricordare l’esemplare impegno professionale del cronista. La pubblicazione fu comunque soltanto parziale, come ha chiarito il figlio della vittima, Giuseppe Francese, nel verbale di assunzione di informazioni del 20 dicembre 1997, in cui si è specificato che non fu pubblicata la parte del dossier riguardante l’on. Salvo Lima.
Nello scritto in questione Mario Francese, anzitutto, delineava con la massima precisione la composizione delle “famiglie” mafiose, mostrandone il territorio ed elencandone gli adepti (questa prima parte del dossier comprendeva, già da sola, 19 pagine dattiloscritte, fitte di nomi). Egli, poi, descriveva la mafia “come una congregazione di mutua assistenza i cui adepti nell’apparente rispetto della legalità s’infiltrano in ogni struttura dell’apparato dello Stato e della società per ricavarne vantaggi anche ricorrendo alla corruzione finalizzando leggi e provvedimenti al profitto di singoli e di gruppi”, spiegava che “in questa conquista del mondo produttivo, attraverso connivenze, compartecipazioni e compromessi, la mafia privilegia i suoi associati usando ed abusando con la lusinga di vantaggi economici e sociali delle pedine soggiogate dello Stato e della società”, metteva in risalto la struttura piramidale ed unitaria di "Cosa Nostra", evidenziando che la mafia moderna aveva “una sua vasta organizzazione piramidale con al vertice gli esponenti del suo mondo organizzativo ed economico. Un vertice composto da persone non sempre facilmente identificabili, rappresentanti interessi eterogenei e manovranti le fila di complessi e svariati interessi d’alto livello nazionale e internazionale”.
Gli amici degli amici
Mario Francese, quindi, analizzava approfonditamente alcune delle più rilevanti iniziative criminali e vicende interne dell’organizzazione, come:
- l’utilizzazione di società di autotrasporti per i più vari traffici illeciti;
- l’attività di contrabbando, con i vertici esecutivi “rappresentati per anni da Gerlando Alberti, Tommaso Buscetta, Luciano Liggio”, i quali “fanno da tramite con i fornitori che hanno come personaggi di primo piano, per quanto riguarda il traffico con l’Italia, i terribili cugini Greco dei Ciaculli”;
- il traffico di stupefacenti, organizzato con l’attivo coinvolgimento di numerosi gruppi criminali, in cui erano inseriti - tra gli altri - i Greco di Ciaculli, Antonino Salamone, Paolo e Nicola Greco, Teresi, Citarda, Bontate, i fratelli Spadaro, Francesco Cambria, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Gerlando Alberti, Luciano Liggio, i Rimi, Giuseppe Calderone;
- il commercio di vino sofisticato;
- i traffici illeciti nei settori della valuta e dei preziosi;
- il reinvestimento in attività economiche dei proventi delle attività illecite (sul punto, Mario Francese precisava: «ad una potenza organizzativa, perché unitaria, corrisponde una inimmaginabile potenza economica della mafia a giustificazione del rapido ed apparentemente incomprensibile arricchimento di singoli mafiosi e di gruppi, di società impegnate nelle più disparate attività produttive e commerciali», sottolineava come la mafia avesse una “straordinaria capacità di inserimento nella società in cui opera mimetizzandosi”, e rilevava che “non v’è distinzione, dunque, fra mafia dedita esclusivamente a delitti e sopraffazioni e una mafia protesa alla conquista del predominio economico”);
- i collegamenti tra le “famiglie” siciliane e quelle statunitensi;
- l’ascesa di Gaetano Badalamenti alla carica di “presidente” della "Commissione", e la quasi concomitante fuga di Luciano Liggio dalla clinica romana dove era ricoverato, nel 1969;
- le attive ricerche svolte dal colonnello Russo per catturare Luciano Liggio;
- i rapporti tra Luciano Liggio e padre Agostino Coppola, e la comune realizzazione di imprese criminali;
- la costituzione delle società “Solitano S.p.A.”, “Sifac S.p.A.”, “Zoo-Sicula RI.SA.” (“interpretato come Riina Salvatore, luogotenente di Liggio”);
- i sequestri di persona compiuti nell’Italia settentrionale ed attribuibili al gruppo mafioso facente capo a Luciano Liggio; sul punto, Mario Francese scriveva: «Luciano Liggio, coadiuvato dai luogotenenti Totò Riina latitante dal marzo 1970, Bernardo Provenzano, latitante dal 1958, Calogero Bagarella latitante dal 1957, Leoluca Bagarella, fratello di Calogero, tutti di Corleone, avevano già all’attivo i sequestri di Luigi Rossi di Montelera, Paul Getty III, Cristina Mazzotti, Luigi Genchini (Milano), Renato Lavagna (Torino), Egidio Perfetti (Milano), Giovanni Bulgari, Saverio Garonzi, Giuseppe Lucchese, Giuseppe Agrati, Baroni»;
- la spaccatura verificatasi, all’interno di "Cosa Nostra", tra lo schieramento riconducibile a Luciano Liggio e le cosche avversarie; al riguardo, Mario Francese osservava che “i sequestri del big delle esattorie di Salemi, Luigi Corleo, preceduto di pochi giorni dal rapimento del docente di criminologia alla Università di Palermo, prof. Nicola Campisi, il sequestro di Graziella Mandalà, moglie dell’ex costruttore Giuseppe Quartuccio, (…) la catena di omicidi nel Corleonese, apertasi nel 1975, (…) l’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e del suo amico, l’insegnante Filippo Costa, (…) la soppressione di Ignazio Scelta e di Baldassare Garda sono le conseguenze più eclatanti di una guerra, ancora apertissima, tra le due cosche dominanti della organizzazione mafiosa. La mafia, cioè, si è spaccata in due tronconi”;
- il sequestro di Franco Madonia, nipote di Giuseppe Garda (anziano esponente della mafia tradizionale di Monreale, ex-costruttore edile, e proprietario di immense distese di vigneti tra Roccamena e Garcia), effettuato in data 8 settembre 1974, e seguito da una lunga serie di delitti;
- l’attività edilizia intrapresa da Giuseppe Garda tra gli anni ’50 e gli anni ’60, attraverso un fitto intreccio di cointeressenze, rapporti societari, contatti con ambienti ecclesiastici e istituzionali; il successivo acquisto di grandi estensioni di terreno, nella zona compresa tra Roccamena e Garcia, da parte del Garda e di altri soggetti (tra cui Antonino, Alberto e Luigi Salvo); e la susseguente espropriazione dei terreni (Mario Francese descrisse così l’effetto del progetto espropriativo, definitivamente approvato nel 1975: “17 miliardi per l’esproprio (…) di terra che, quattro o cinque anni prima, agli acquirenti era costata, in tutto, meno di due miliardi”);
- il sequestro del Prof. Nicola Campisi, realizzato il 1° luglio 1975;
- il sequestro dell’esattore Luigi Corleo, suocero di Antonino Salvo, compiuto in data 17 luglio 1975; sull’argomento, Mario Francese - dopo avere evidenziato che “per le benemerenze acquisite nel partito DC, il gruppo Corleo-Cambria-Salvo, che ebbe un ruolo determinante nelle elezioni regionali del 1962 che segnarono il tracollo di Milazzo, consolidò la sua posizione economica nell’Isola avendo avuto la gestione di tutte le esattorie comunali che già controllavano ed avendo potuto estendere il loro controllo, grazie ad appoggi politici, nelle esattorie di nuove grosse città siciliane e del meridione” - scrisse: «quando fu sequestrato, Luigi Corleo (…), così come don Ciccio Cambria al figlio Giuseppe, aveva passato la mano al genero Nino Salvo, in grado, per la sua ventennale esperienza, ad ereditare l’impero economico del suocero. Un impero indubbiamente costruito col benestare della vecchia mafia del Trapanese e del palermitano, quella, per intenderci, rappresentata dai Rimi di Alcamo, dai Bua di Marsala, da Giuseppe Garda, ma anche dalle vecchie leve della Democrazia cristiana»; ed aggiungeva: «come il sequestro di Franco Madonia aveva inteso colpire la potenza economica di Giuseppe Garda e dei suoi “amici” e sconvolgere l’equilibrio che nel Monrealese si era instaurato ad uso e consumo della mafia tradizionale, così il sequestro Corleo è stato interpretato come un atto di ribellione della nuova mafia ad un impero economico basato su vecchi equilibri. Si voleva sconvolgere la zona della Valle del Belice ove la mafia tradizionale e vecchi imperi economici da essa sostenuti avevano il controllo sui lavori di ricostruzione dei paesi colpiti dal terremoto del gennaio 1968»;
- la costituzione della nuova “anonima sequestri” siciliana, a capo della quale si sarebbe trovato il boss di Santa Ninfa, Vito Cordio, successivamente scomparso;
- l’emissione di mandati di cattura a carico di Giuseppe Ferrante, Giuseppe Filippi e Giuseppe Renda per il sequestro del prof. Campisi;
- la “guerra fratricida” scatenatasi tra le cosche implicate nei sequestri del Campisi e del Corleo;
- l’inizio delle “ostilità tra le cosche mafiose del dopo Campisi e Corleo”, verificatosi il 27 febbraio 1976, data in cui, in un ristorante di Mazara del Vallo, si era tenuto un banchetto cui avevano preso parte “l’imprenditore di Mortevago, Rosario Cascio, il suo protettore Stefano Accardo di Partanna, l’ingegner Ero Bolzoni, direttore, per conto della Lodigiani, dei lavori di costruzione della diga Garcia, (…) e il geometra Paolo Lombardino, imprenditore edile”; Rosario Cascio intendeva così festeggiare il contratto stipulato con la società Lodigiani per la costruzione del cantiere-operai di Garcia, per la fornitura di inerti e conglomerati cementizi occorrenti per la diga, e per la realizzazione della galleria destinata a deviare, fino al termine dei lavori, il corso del fiume Belice; al riguardo, Mario Francese specificava: “un banchetto che occorrerà anche ricordare come punto di partenza nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del col. Giuseppe Russo”;
- il tentativo di omicidio commesso nello stesso giorno in danno dell’Accardo e del Lombardino (in proposito, Mario Francese chiariva: “due sono le versioni su questo duplice attentato: Accardo doveva essere punito perché, secondo alcune fonti, indicato come autore della soppressione di Vito Cordio; Stefano Accardo doveva essere eliminato perché, con le sue confidenze al col. Russo, aveva propiziato la denuncia degli autori dei sequestri Campisi e Corleo”);
- la catena di delitti che fece seguito al predetto episodio criminoso;
- il sequestro di Graziella Mandalà, moglie dell’ex costruttore di Monreale Giuseppe Quartuccio (già socio di Giuseppe Garda), avvenuto il 21 luglio 1976, cui fecero seguito una lunga serie di omicidi e l’arresto dello stesso Quartuccio per concorso in sei episodi omicidiari;
- le vicende mafiose successive ai suddetti sequestri di persona, con le pressioni intimidatorie sulla società Lodigiani, l’ “armistizio” tra la mafia e la società Lodigiani dopo il 16 ottobre 1976, l’estromissione di Rosario Cascio, l’affidamento delle forniture alla società INCO, i fatti di sangue verificatisi nella zona: secondo Mario Francese, “riciclato gran parte del denaro proveniente dai riscatti dei sequestrati, creato un innumerevole numero di società di comodo, la nuova mafia alla fine del 1976 inizia il secondo ciclo del suo programma”; il giornalista, inoltre, specificava che nel triangolo Corleone-Roccamena-Partinico la “nuova mafia” aveva ripreso “il controllo di tutte le risorse economiche: dalle forniture ai subappalti, dai pascoli agli allevamenti”;
- i numerosi omicidi commessi a Corleone e nelle zone vicine tra il 1975 ed il 1978, i quali, pur essendo stati determinati da diverse motivazioni, avevano “messo in luce l’esistenza di una mafia nuova che era riuscita ad imporre, in ogni settore economico, il suo spietato controllo”; Mario Francese aggiungeva: “non stupisce, perciò, che lo stesso gruppo di mafia dominante abbia decretato l’uccisione dei Palazzo, per un motivo, e quella del col. Russo per un altro”;
- i rapporti tra il colonnello Russo e Rosario Cascio;
- la posizione di Giuseppe Modesto (il quale, oltre ad essere Presidente della società INCO, era dipendente dell’amministrazione provinciale e segretario dell’assessore delegato alle opere finanziate dalla Cassa per il Mezzogiorno; al riguardo, Mario Francese osservava: “strano compito, quello di Modesto che aveva richiesto 200 milioni di finanziamenti proprio alla Cassa per il Mezzogiorno per potenziare le attrezzature della INCO”);
- le vicende della INCO: una società modesta, con sede iniziale a Camporeale, fondata il 26 giugno 1970, registrata a Monreale, di cui erano soci l’imprenditore di Monreale Francesco La Barbera, Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato di quest’ultimo, il geometra Giuseppe Modesto; la società il 10 luglio 1971 aveva portato il suo capitale a 150 milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni; in tale anno Giuseppe Modesto aveva assunto la presidenza del consiglio di amministrazione della società; alla fine del 1976 la società appariva in crisi: Mario Francese specificava che nella relazione di fine anno allegata al bilancio si leggeva che “la situazione reddituale è negativa per il ridotto regime di attività degli impianti nel corso dell’esercizio 1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari per debiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del contributo della Cassa del Mezzogiorno”; per la prima volta, la “INCO” fece ricorso al fondo di riserva; Mario Francese osservava: “e con questa situazione, la INCO si prospettò come alternativa alla IMAC, l’unica società della Sicilia occidentale in grado di soddisfare il crescente fabbisogno di inerti e di conglomerati cementizi della Lodigiani”;
- le ragioni dell’uccisione del colonnello Russo, che Mario Francese riteneva essere stato “assassinato per aver cercato di ripristinare l’ordine e infrenare soprusi nella smodata corsa di gruppi della mafia verso i remunerativi subappalti ruotanti attorno alla costruenda diga Garcia”. In proposito, Mario Francese scriveva che i rapporti di amicizia dell’ufficiale con Rosario Cascio lo avrebbero «indotto all’ardito tentativo di conservare all’amico il lavoro che si era legittimamente conquistato nella diga Garcia da dove alcuni gruppi di mafia l’avevano, con una serie di violenze, cacciato», e precisava che i medesimi gruppi mafiosi «nella non gradita intromissione dell’ufficiale in difesa di Cascio, avevano intravisto un serio pericolo per la realizzazione dei loro programmi, iniziati sin dal 1974 con alcuni sequestri “monstre”e finalizzati alla conquista dell’assoluto predominio nella zona di Garcia e nella valle del ricostruendo Belice. Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia in fermento avevano già avuto modo di conoscere (…) le doti di tenacia di Russo»;
- la situazione nella quale era venuto a trovarsi Rosario Cascio, così descritta: «uno degli obiettivi della “nuova mafia” è quello di “cancellare” l’impresa di Rosario Cascio da numerosi appalti, ad iniziare dalle forniture alla Lodigiani. Il motivo, per una parte, appare scontato: Cascio è stato considerato una pedina fondamentale del vecchio equilibrio nella zona. In secondo luogo Cascio era inviso alla nuova mafia per due motivi: era amico del colonnello Russo e di questo si vantava; aveva le spalle protette da Stefano Accardo, il boss di Partanna-Trapani che sarebbe stato uno degli artefici del fallimento del sequestro Corleo».
La nuova mappa di Cosa Nostra
Nel tracciare l’organigramma delle varie cosche mafiose, Mario Francese sottolineava il predominio esercitato da quasi un secolo dalle famiglie Greco sulle borgate di Ciaculli-Croceverde-Giardini, menzionava Giacomo Gambino, Francesco Madonia, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano (questi ultimi tre qualificati come “luogotenenti” di Luciano Liggio) tra i numerosi componenti del clan capeggiato dal Liggio, specificava che il nuovo leader della cosca di Villagrazia era Stefano Bontate, ed indicava Bernardo Brusca come membro della cosca di San Giuseppe Jato, Agostino Coppola e Antonino Geraci (fu Gregorio) come partecipi della cosca di Partinico, Giuseppe Calò come soggetto inserito nel gruppo di Palermo-Porta Nuova.
La profondità e la precisione delle informazioni esposte da Mario Francese emergono in tutta la loro rilevanza se si paragonano al ridotto livello delle conoscenze allora comunemente presenti, nello stesso ambiente giornalistico, in ordine al fenomeno mafioso: in proposito, Ettore Serio (redattore capo del "Giornale di Sicilia" fino ai primi mesi del 1979) nel verbale di sommarie informazioni testimoniali del 22 aprile 2000 ha affermato: «nel periodo in cui ho lavorato al Giornale di Sicilia non è stato pubblicato nulla in merito a Michele Greco che io mi ricordi. A quell’epoca si pensava che la mafia era quella dei Bontate. E’ con le dichiarazioni di Buscetta che si comincia a capire qualcosa, ed in particolare ad apprendere chi fossero i vincenti”; ed il collega Lucio Galluzzo nel verbale di assunzione di informazioni del 14 aprile 1998 ha specificato: «ritengo di avere letto per la prima volta le parole “Commissione”, “Triumvirato”, proprio in scritti di Mario Francese».
Un sia pur sommario esame del suo contenuto evidenzia che il dossier, pur riportando numerosi fatti noti, possedeva una forte carica innovativa perché – in un periodo in cui le conoscenze sul fenomeno mafioso erano assai limitate – operava un collegamento ragionato tra le varie vicende susseguitesi in un lungo arco di tempo, ne effettuava una rilettura organica, e consentiva di cogliere con chiarezza l’evoluzione e le dinamiche interne a "Cosa Nostra", delineandone la fisionomia attuale e le strategie destinate a proiettarsi nel futuro, e suggerendo agli inquirenti importanti filoni investigativi. E’, quindi, assolutamente manifesta la pericolosità che lo scritto di Mario Francese presentava per gli esponenti dell’organizzazione e per i soggetti contigui, spesso collocati in posizioni di potere economico e politico.
Le lamentele per la mancata pubblicazione
Mario Francese fu incaricato di raccogliere in modo sistematico tutti gli episodi più eclatanti, di cronaca nera e di matrice mafiosa, verificatisi nella Sicilia occidentale dopo la conclusione dell’inchiesta parlamentare antimafia, dall’allora capo cronista Lucio Galluzzo (cfr. il verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da quest’ultimo in data 6 febbraio 1979). Egli scrisse quindi, tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978 (come ha specificato il giornalista Armando Vaccarella nell’esame testimoniale del 24 luglio 1979), il dossier, del quale parlò più volte con i colleghi. Secondo la testimonianza del giornalista Sergio Raimondi, “dai suoi discorsi sembrava che il Francese fosse arrivato in anticipo, rispetto agli altri cronisti e in certi casi anche rispetto agli investigatori, ad individuare i nuovi equilibri della mafia e l’effettivo ruolo già a quel tempo assunto da Riina Salvatore e dai Corleonesi” (cfr. il verbale di assunzione di informazioni rese dal Raimondi il 30 aprile 1998); anche il collega Felice Cavallaro, nel verbale di sommarie informazioni del 2 ottobre 1996, ha ricordato che Mario Francese parlava spesso del dossier, definendolo “una bomba”.
In un articolo dal titolo “Il dossier scritto da Francese sotto gli occhi degli inquirenti”, pubblicato sul quotidiano “Il Diario” del 30 gennaio 1979, il giornalista Francesco La Licata evidenziò le seguenti circostanze: «Gli inquirenti non sottovalutano neppure il fatto che Mario Francese parlava molto di questo dossier, presentandolo come la “verità definitiva” sulla morte del colonnello Russo. Ne aveva parlato sinanche a Corleone, durante la sua breve permanenza nell’ospedale di quella cittadina».
Nelle intenzioni di Mario Francese e di Lucio Galluzzo, lo scritto doveva essere pubblicato a puntate sulla terza pagina del "Giornale di Sicilia" “come documento dell’attività mafiosa in Sicilia negli ultimi anni”, e successivamente raccolto nella sua interezza in un libro (cfr. le sommarie informazioni testimoniali rese da Giulio Francese il 31 gennaio 1979 e da Lucio Galluzzo il 6 febbraio 1979).
Il dossier fu consegnato al Galluzzo, ma non venne pubblicato in quanto si ritenne che esso necessitasse di una “riscrittura”. Il relativo compito fu conferito ai colleghi Giuseppe Sottile e Giuseppe Molina, i quali però non poterono espletarlo a causa dei loro impegni professionali (cfr. le sommarie informazioni testimoniali rese dal Galluzzo il 6 febbraio 1979).
Mario Francese si lamentò con diversi colleghi perché lo scritto non era stato pubblicato, ed anzi - secondo quanto gli aveva riferito il Galluzzo - era stato smarrito (cfr. il verbale di assunzione di informazioni rese da Giuseppe Montaperto il 9 aprile 1998). Il figlio Giulio Francese ha precisato: «Ciò che turbò particolarmente mio padre fu innanzitutto il fatto che il dossier non venne pubblicato perché non sarebbe stato adeguatamente apprezzato. Ricordo che mio padre diceva che era stato dimenticato in qualche cassetto ed era evidente che era stato sottovalutato. (…) A ciò si aggiunge il fatto che mio padre, profondamente amareggiato da tutta la vicenda, portò con se a casa il dossier stesso, quasi a volerlo proteggere. Disse allora che lo avrebbe aggiornato e pubblicato comunque, anche come libro. (…) Ribadisco comunque che mio padre (…) disse espressamente di avere avuto l’impressione che quel dossier fosse in qualche modo uscito dalla redazione del giornale» (v. il verbale di spontanee dichiarazioni del 7 marzo 1994).
Nella stessa sera in cui avvenne l’omicidio, Giulio Francese apprese da Sergio Raimondi che il dossier era stato portato da Mario Francese nella propria abitazione il 23 o il 24 gennaio. Giulio Francese, in effetti, trovò il dossier inserito in una grossa busta, adagiata su un mobile dell’appartamento (v. le sommarie informazioni testimoniali rese da Giulio Francese il 31 gennaio 1979).
Dopo la morte di Mario Francese, il dossier fu pubblicato, per volontà del direttore del quotidiano, Lino Rizzi, sul settimanale del “Giornale di Sicilia”, allo scopo di onorare la memoria del cronista (cfr. il verbale di assunzione di informazioni rese da Sergio Raimondi il 30 aprile 1998). Il direttore ed il redattore capo Ettore Serio incaricarono della revisione linguistica e della sintesi del testo il collega Felice Cavallaro (v. le dichiarazioni rese dal Cavallaro nell’esame testimoniale del 28 agosto 1979, nel verbale di sommarie informazioni del 2 ottobre 1996, nel verbale di assunzione di informazioni del 20 aprile 1998).
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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