Il tennista Novak Djokovic non potrà partecipare agli Open di Australia: il governo di quel paese gli ha negato il visto poiché non è vaccinato e l’ha messo subito in isolamento. Qualcuno grida: «È una dittatura! Liberatelo!». Eppure, la dittatoriale Australia fino a oggi ha avuto solo 2302 morti da Covid. Noi, 140mila. Che abbiano ragione loro?

«Testa, traccia e isola»

Quando, a inizio gennaio 2020, l’Oms ha avvertito che era in corso una pandemia causata da un nuovo pericoloso coronavirus, molti paesi del mondo, tra i quali l’Australia, la Cina, la Corea del Sud e la Nuova Zelanda, hanno subito adottato la politica «Testa, traccia e isola» e intensificato i controlli alle frontiere, chiudendole persino, in qualche caso.In Corea del Sud, per esempio, a gennaio 2020 il governo ha deciso di testare, cioè di sottoporre a tampone molecolare, tutti gli individui che mostravano sintomi simili al Covid, cioè tosse e raffreddore, o che avevano avuto contatti con la Cina, di tracciare i loro contatti, e di isolare coloro che risultavano positivi.

Per farlo, il governo ha chiesto alle fabbriche del paese di costruire subito 600 nuovi thermal cycler (speciali macchine che effettuano le Pcr, cioè le reazioni a catena della polimerasi per l’esame dei tamponi), e alle aziende chimiche del paese di preparare le sostanze chimiche necessarie per eseguirli; nel giro di pochi giorni hanno aperto 600 nuovi laboratori per fare i test. Risultato: hanno immediatamente testato e trovato positivi una ventina di coreani appartenenti una setta religiosa che si erano recati a un convegno di confratelli a Wuhan, in Cina, hanno tracciato tutti i loro contatti, e isolato i positivi. Casomai gli fosse sfuggito qualcuno, hanno messo in lockdown la città di Daegu, una metropoli di 2,5 milioni di abitanti da cui proveniva la maggior parte di loro, ma solo per poche settimane. In questo modo hanno interrotto le catene di contagio a inizio epidemia, quando i casi erano pochi, e le persone da testare al massimo poche migliaia: così hanno tenuto i numeri dei contagi sempre bassi, e perciò bastava una chiusura breve, limitata a pochi quartieri o a una città focolaio, per abbatterli. All’inizio, è facile testare tutti i pochi positivi ed i loro contatti, isolarli, e reprimere l’epidemia sul nascere. Dopo, è troppo tardi.

La diffusione di un virus in una epidemia segue leggi matematiche semplici. Il SARS-CoV-2 originario aveva un R0 uguale a 3 e un tempo di raddoppio uguale a 3. Ciò significa che ogni infetto contagiava in media altri 3 individui, e che i casi raddoppiavano ogni 3 giorni. Se avevi un infetto, dopo 3 giorni diventavano 2, che dopo 3 giorni diventavano 4, che dopo altri 3 giorni diventavano 8, e così via. Ma se aspettavi 20 generazioni del virus, cioè sessanta giorni, senza fare nulla, ti ritrovavi con 1.048.576 casi, che diventano 2 milioni 3 giorni dopo. E se ipotizzi che ognuno di questi abbia contatti con altre 3 persone, significa che tu dovresti effettuare almeno 6 milioni di tamponi al giorno: impossibile.

Cosa è successo invece in Italia? Noi abbiamo identificato il primo caso di Covid, il signor Mattia Maestri da Codogno, il 23 febbraio del 2020. Ma epidemiologi della regione Lombardia hanno scoperto che il coronavirus era presente in Italia dal primo gennaio, quindi aveva potuto replicarsi per 60 giorni, cioè per 20 generazioni: perciò l’8 marzo, quando siamo entrati in lockdown, c’erano probabilmente già un milione di individui positivi al virus in giro. Troppo tardi per testare o tracciare tutti, così ci è toccato un lockdown lungo e tragico.

Il tampone molecolare

Per capire perché, vi devo spiegare come si fa un tampone molecolare. Un signore ti sfrega un lungo cotton fioc nel naso. Un altro signore prende quel cotton fioc e lo mette in una provetta con dei reagenti che estraggono l’Rna del virus; poi prende quell’Rna e lo mette in una provetta con altri reagenti ancora, che inserisce dentro al thermal cycler, la macchina che esegue il test (per fare tutto, serve un’ora). La macchina si chiama thermal cycler perché compie cicli termici. L’Rna del virus è un lungo filamento formata da mattoni denominati nucleotidi, che si chiamano adenina (A), guanina (G), citosina (C), e uracile (U). Dentro alla provetta, l’Rna del virus viene trascritto in un filamento di Dna complementare da un reagente chimico chiamato trascrittasi inversa. Si definisce complementare perché ogni nucleotide del filamento madre di Rna si accoppia a un nucleotide complementare nel filamento figlio di Dna. L’adenina dell’Rna lega una timina nel Dna, la guanina dell’Rna lega una citosina nell’Rna, l’uracile dell’Rna si lega a una timina nel Dna. Così si genera un doppio filamento Rna-Dna simile a una cerniera lampo, formata da un filamento di Rna e da un filamento di Dna ad esso complementare: se, per esempio, la sequenza dell’Rna era AGUAAC, quella del Dna è TCTTTG. A questo punto, la macchina fa salire la temperatura della provetta a 95 gradi, e il riscaldamento provoca la separazione dei due filamenti di Rna e Dna. Poi, la macchina fa scendere la temperatura a 58 gradi: nella provetta sono stati aggiunti dei primer, (alla lettera “inneschi”), cioè delle piccole sequenze di nucleotidi complementari a quella di tre dei geni del coronavirus (chiamati S, E, ed RdRP), ad essi si lega un enzima chiamato polimerasi, che usa quel primer come innesco per trascrivere il filamento del gene in un filamento complementare di Dna, che si accoppia al filamento di Dna originario per generare un doppio filamento Dna-Dna; poi la temperatura sale a 98 gradi, i due filamenti si staccano, la temperatura scende a 58 gradi, la polimerasi da ogni doppio filamento Dna-Dna genera 4 doppi filamenti complementari Dna-Dna; la temperatura sale e i 4 doppi filamenti si staccano, poi scende e si generano 16 doppi filamenti, e così via. Si chiama reazione a catena della polimerasi proprio perché compie questa catena di cicli. Per arrivare a raccogliere una quantità di Dna sufficiente per il test, la macchina deve compiere circa 30 cicli termici, che durano circa un’ora. Tenendo conto del fatto che in ogni thermal cycler posso caricare 96 provette, e che da ogni tampone prelevato da un individuo devo caricare 3 provette per evitare errori, io per ogni ciclo della macchina posso testare i tamponi di 30 individui circa, e mi occorrono in totale 2 ore per processarli. Lavorando 24 ore su 24, un laboratorio con una macchina può processare i campioni di 720 individui.

Sintomi di un ritardo

Adesso, abbiamo 200mila contagi al giorno, ipotizzando tre contatti per ciascuno, fanno 600 mila persona da testare al dì: quindi, servirebbero circa 80 mila macchine da Pcr attive 24 ore su 24 coi relativi tecnici, mentre gli ospedali italiani sono solo circa 1000. A ciò si aggiunge il fatto che in Italia noi non produciamo più né i thermal cycler, né il kit di reagenti necessari per i test (primer, polimerasi, nucleotidi, trascrittasi inversa etc).

Allora, per fare i tamponi dobbiamo usare i cosiddetti tamponi rapidi, o antigenici, che costano meno e però sono molto meno affidabili dei tamponi molecolari. Funzionano così. Si mette una goccia del liquido prelevato dal tampone nel pozzetto, questo scorre per capillarità all’interno di un gel, e a livello della barretta di lettura incontra una serie di anticorpi contro la proteina spike del virus e coniugati con una molecola colorata: se la proteina spike è presente nel campione, cioè se nel tampone c’è virus, questa reagisce con gli anticorpi e libera la molecola colorata, che tinge la barretta dando il risultato positivo. Però, gli anticorpi possono riconoscere anche altre proteine che non siano la proteina spike, dando un falso positivo; oppure, se il tampone contiene una variante del virus che possiede una mutazione nella proteina spike, l’anticorpo del test potrebbe non riconoscerla, dando un falso negativo. Con i tamponi rapidi non si controlla un’epidemia.

Quindi, meno Djokovic entrano, e meno rischi: dopo, potresti pentirti.

  

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