L'hanno definita l’officina dei miracoli, il posto dove rifanno gambe o mani per una seconda possibilità. Maxcel Manu finì al Centro Protesi Inail nel 2017, un incidente gli aveva portato via una gamba e per lui niente doveva avere più senso. Sbagliato. Oggi è campione del mondo nei 100 metri T64.

Da qui sono passate pure le regine della velocità di Tokyo 2020: Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Contrafatto. Le stesse ragazze che si sono ripetute due giorni fa ai Mondiali di Parigi. Anche le loro protesi sono state realizzate a Vigorso di Budrio, alle porte di Bologna, nel centro che accoglie persone con disabilità motoria provenienti da tutto il mondo.

Spiega Gregorio Teti, il direttore dell’area tecnica, che «lo sport da noi viene utilizzato come embrione di nuove tecnologie e nuovi materiali. E una volta raggiunta l’affidabilità necessaria impieghiamo il tutto per gli altri pazienti».

Ne passano ogni anno quasi 7.000. Lo sport è solo la punta dell’iceberg. Sono venuti Bebe Vio, Alex Zanardi, tutti quelli che lo sport vogliono portarlo avanti anche solo a livello amatoriale. Golf, powerlifting, canoa: non si può non passare da qui. Il 70% ha bisogno di un arto inferiore, il 30% quello superiore.

L’80% dei pazienti è rappresentato dagli infortunati Inail, il resto è composto da invalidi civili, assistiti dal servizio sanitario nazionale e da privati. La maggior parte sono uomini e donne in età lavorativa, ma tra gli invalidi civili ci sono anche bambini e anziani.

I progressi nel tempo

Lo inaugurarono nel 1961, l’Inail voleva un centro per assistere i propri infortunati sul lavoro. Oggi entrare al Centro protesi è come fare un giro nel futuro. Il centro collabora con venti istituzioni scientifiche (tra cui l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, il Sant’Anna di Pisa, il Campus biomedico di Roma, il Cnr e il Minneapolis Veteran Administration) per restituire un corpo alle vittime di incidenti sul lavoro, traumi e malattie.

«Negli ultimi anni - spiega ancora Teti - sono state introdotte molte novità sui materiali e sulle tecnologie applicate ai materiali». Si guarda all’impatto ambientale, alla ricerca, alla sostenibilità. Vengono utilizzate meno materie prime (addirittura con un abbattimento del 50%), particolare che ha comportato una diminuzione dei costi e quindi un risparmio per l’amministrazione pubblica. Anche i tempi di produzione si sono abbassati, addirittura del 60%. Oggi si va dalle 8 alle 16 ore al massimo, «fino a non molti anni fa erano più lunghi», sorride Teti.

Lo studio dei materiali è in costante sviluppo. Una volta il titanio andava per la maggiore e veniva utilizzato in moltissimi casi, adesso si privilegia il carbonio. Ma quel che conta davvero affinché una protesi sia eccellente è l’intreccio di materiali e componenti. Ecco cosa la rende realmente innovativa, efficace e utile. Fino al 2018 le invasature, ossia la parte cava, a contatto con la pelle, che accoglie il moncone, pesavano anche più di un chilo.

Ora si può scendere sotto i 330 grammi.
Più che officina dei miracoli, come piace dire, il 4.0 è dappertutto: a Budrio sono passati da una visione artigianale a una digitale. La vocazione protesica è territoriale, tant’è che è stata riconosciuta dall’Ocse nel 2000. Oltre al Centro sono sorte officine private, satellite, create soprattutto negli anni 80 da ex dipendenti, oggi nelle mani di multinazionali. Il concetto è lo stesso per tutti. È come in Formula 1. Ci sono gli ingegneri, i tecnici, i meccanici, i software. Ma poi per lavorare sui dettagli occorrono i piloti.

Qui i pazienti sono al centro di tutto. Sono loro a fornire i feedback ai ricercatori. «La standardizzazione è la personalizzazione. Per una protesi i punti fondamentali sono cinque: affidabilità, intuitività nell’utilizzo, leggerezza, resistenza e facilità di vestizione», spiega Teti. Mettere una protesi deve essere comodo, semplice e confortevole.

«Pensate a un paio di scarpe: se per portarle ci volessero trenta minuti, anche se fossero bellissime, tecnologiche e costosissime nessuno le indosserebbe». In futuro verranno stampate in 3D, in multimateriale a densità variabile, con sensori che le renderanno vere smart socket.

Al Centro è stata creata la prima mano mioelettrica, oggi evoluta in quella di derivazione robotica “Hannes”. Tra qualche anno i sensori permetteranno di far (ri)provare al paziente tatto e formicolio. Non siamo lontani.

Le prospettive

Il centro Inail è articolato in un’officina ortopedica con reparti produttivi specializzati per tipologia di protesi, un’area di consulenza e fornitura ausili, un’area ricerca, una sanitaria con degenze e reparti riabilitativi provvisti di palestre e fisiokinesiterapia. Conta 347 operatori tra tecnici ortopedici, ingegneri, medici, infermieri, fisioterapisti, assistenti sociali, amministrativi.

E ovviamente psicologi, perché questa integrazione uomo-macchina non sempre è scontata o immediata. «È importante capire cosa succede a livello emotivo nei confronti del rapporto tra oggetto e uomo». All’interno del centro c’è pure un dipartimento di ricerca guidato da Emanuele Gruppioni.

Qui si sperimenta il futuro. Esoscheletri, tute sensorizzate: tutto quello che ancora non esiste, ma che prima o poi diventerà realtà. Si lavora sull’intelligenza artificiale con l’idea di incrementare i sensori all’interno di una protesi.

Racconta Gruppioni che «prima di questi algoritmi il paziente pensava al polso per far andare la mano. Con questi algoritmi, utilizzando un numero di sensori nell'invasatura, è possibile distinguere quello che il paziente pensa e vuole fare: se aprire la mano, usare tre dita, alzare l’indice. Trasformano il pensiero, che si realizza in movimento».

Dentro una protesi, oggi, possono essere collocati anche 10 sensori (prima 6). E poi c’è la sfida dell’interfaccia bionica, cioè riuscire a trasportare più informazioni possibili dal cervello all'arto per migliorare la qualità dei movimenti o la sensibilità. Decisiva è anche l’estetica. «Non è qualcosa in più, l’estetica è una funzionalità. I pazienti non vogliono più nascondere la protesi, ci chiedono di farla vedere. E questa è una cosa bella».

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