«Un connubio diabolico tra figure di diverse estrazioni: uomini politici, imprenditori, politici». Un comitato con un obiettivo preciso: «Fare affari attraverso attività illecite, quali abuso di ufficio (le entrature), turbata libertà degli incanti e corruzione». In altre parole arricchirsi sfruttando al massimo gli agganci nelle istituzioni e nel mondo finanziario. È lo spirito della ‘ndrangheta dei tempi moderni, più simile a una holding con azionisti insospettabili che a un tradizionale clan armato fino ai denti.

L’inchiesta colpisce duramente il partito degli eredi della Democrazia cristiana, l’Udc. In questa trama, infatti, troviamo Francesco Talarico, assessore al Bilancio della giunta calabrese di centrodestra, guidata dal leghista Ninò Spirlì, nonché segretario regionale del partito, e Lorenzo Cesa, segretario nazionale fino alle dimissioni date ieri dopo la notizia del suo coinvolgimento nell’inchiesta, corteggiato dal governo come responsabile in grado di rafforzare la maggioranza traballante di Giuseppe Conte. Cesa è indagato per concorso esterno per fatti accaduti nel 2017. «Si impegnava ad appoggiare il gruppo criminale nel campo degli appalti» si legge nell’atto d’accusa della procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri che ha coordinato l’inchiesta “Basso profilo” che ha portato all’arresto di 48 persone: la maggior parte ai domiciliari, 13 in carcere.

Un altro capitolo del manuale mafia e politica, a poche settimane dall’inizio del maxi processo contro le cosche, con una schiera di colletti bianchi, tra cui avvocati, ex parlamentari, uomini d’affari, sindaci e assessori.

Il 5 per cento

I personaggi in questa storia tra mafia e politica sono diversi. Cesa avrebbe dovuto garantire il gruppo capeggiato da un imprenditore dei clan, Antonio Gallo. In che modo lo spiegano i magistrati e i detective dalla Direzione investigativa antimafia diretta da Maurizio Vallone: sfruttare le «entrature» del leader democristiano per chiudere affari milionari. L’anello di congiunzione tra Gallo e Cesa è Talarico, l’assessore al Bilancio e uomo forte del centrodestra calabrese.

L’assessore «avrebbe dovuto trovare entrature a Gallo tramite Cesa in cambio di una percentuale sugli affari del 5 per cento», scrivono gli inquirenti. «Addirittura», aggiungono i detective e i pm, «ma questo non è stato riscontrato, intendevano remunerare Cesa con una percentuale del 5 per cento sugli affari che grazie ai suoi uffici sarebbero stati agevolati».

Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore delle cosche e il suo entourage avevano in mente un progetto ambizioso: «L’appoggio negli appalti in contropartita del sostegno elettorale che effettivamente avrebbero fornito rivolgendosi a più famiglie, alcune in contesti mafiosi a poteri forti, “lobbies” che hanno dominato per anni la scena politica reggina, calabrese e nazionale». Il riferimento e alla città di Reggio Calabria, luogo di elezione di alcuni tra gli esponenti politici che hanno fatto carriera nazionale e sono finiti nei guai per i loro rapporti con le cosche.

Un contesto che altre indagini antimafia e recenti processi hanno descritto nei dettagli, rivelando l’esistenza in città di una “cupola” di potere formata da affiliati ai clan, professionisti e politici. Tutti insieme seduti allo stesso tavolo, spesso saldati dalla comune fratellanza massonica. Nelle carte dell’inchiesta di Catanzaro c’è infatti anche Natale Errigo che «in ragione delle parentele, avrebbe assicurato un apporto a livello elettorale».

Le relazioni familiari portano alla potente famiglia di ‘ndrangheta De Stefano, padroni di Reggio fin dagli anni Settanta, embrione della masso-’ndrangheta, così definita da diverse procure. Errigo vanta nelle intercettazioni frequentazioni in importanti circoli della Capitale: «Cioè per dirne una... andammo anche al compleanno di Lotito eh...». I patti nel codice d’onore dei clan si rispettano, per questo Gallo, l’imprenditore, spiegava a Errigo di avere avvertito il politico Talarico delle possibile ripercussioni se una volta incassato il sostegno di certe famiglie si fosse dimenticato degli amici: «Gli ho detto vedi che io mi sto esponendo a Reggio... non vedere che vinci e ti dimentichi... che prendono e ammazzano me, chiaro».

Gallo e i suoi uomini si preoccupavano di incassare più commesse possibili: nelle intercettazioni si trovano le sigle di importanti aziende di stato, che tramite agganci politici avrebbero potuto concedere commesse milionarie.

Servitori infedeli

Il sistema che ruota attorno ad Antonio Gallo, in rapporto con il clan, si caratterizza per la presenza di bancari che non segnalano operazioni sospette, sodali in grado di mettere in piedi un giro di false fatturazioni e società fittizie, teste di legno e rapporti fin dentro gli apparati dello stato. Tra gli uomini a disposizione c’è l’allora finanziere Ercole D’Alessandro.

Oggi è in pensione ma nel 2017, quando indossava ancora la divisa, ha incontrato Tommaso Brutto, un politico locale. I due ragionavano su un’eventuale collaborazione per definire alcuni affari in Albania. D’Alessandro assicurava l’interlocutore sugli agganci in quello stato, premettendo però la necessità di oliare il sistema: «Là tu devi dare ragione a una persona sola hai capito?... anche, anche a livello, cioè a livello ministeri». D’Alessandro non si è preoccupato quando è venuto a sapere che l’imprenditore amico di Brutto era Antonio Gallo, già sospettato di legami con le ‘ndrine e coinvolto in un’indagine per riciclaggio.

Tutto gira intorno a lui che i collaboratori di giustizia indicano come soggetto a disposizione della ‘ndrangheta. Gallo ha mostrato reverenza nei confronti delle cosche tanto da aver comprato 18 Rolex: servivano a omaggiare anche uomini della malavita. Gallo aveva spiegato fin da subito all’ex finanziere che in Albania era già nata una società, ma che avrebbe desiderato investire anche in Polonia e Montenegro. Il militare assicurava di avere agganci in tutti e tre gli stati. Gallo aveva investito 80mila euro per la sua attività in Albania, inaugurata tre anni fa.

«Ho incontrato Casini»

Il rapporto Gallo-D’Alessandro conduce di nuovo a Roma, centro della politica che conta. Se Talarico e Cesa, vertici regionali e nazionali degli eredi della Dc, sono indagati, solo citato nelle carte dei magistrati è l’ex presidente della Camera: Pier Ferdinando Casini. Estraneo all’inchiesta, il suo nome però emerge in alcune intercettazioni registrate durante una riunione, avvenuta nel luglio 2017, a casa del politico Tommaso Brutto.

Con loro anche Gallo e D’Alessandro. Il tema della riunione riguardava le solite “entrature” da ricercare in ambito istituzionale per il tramite proprio di Cesa e anche di Casini.

«D’Alessandro affermava: “Io l’altro giorno quando sono andato a Roma, mi sono incontrato anche con Pier Ferdinando Casini che questo amico mio che stiamo andando giorno 12, praticamente è il braccio destro suo per quanto riguarda l’estero e mi ha detto Casini che qualsiasi cosa avete bisogno, in Albania... capito?”», è scritto nelle oltre mille pagine dell’atto d’accusa della procura di Gratteri.

© Riproduzione riservata