- Il 22 febbraio a Kinshasa, in una cerimonia a cui presenzieranno, oltre alla moglie Zakia, il nostro ambasciatore Alberto Petrangeli e autorità congolesi, la via dell’ambasciata italiana sarà intitolata a Luca Attanasio.
- A due anni dal tragico evento prevalgono i dubbi sulle certezze.
- Il processo a Kinshasa, iniziato a ottobre, è pieno di incongruenze e falle procedurali mentre quello ai funzionari del Pam rinviati a giudizio dalla procura di Roma, potrebbe non celebrarsi mai per la probabile scelta di avvalersi di immunità diplomatica
Il 22 febbraio a Kinshasa, in una cerimonia a cui presenzieranno, oltre alla moglie Zakia, il nostro ambasciatore Alberto Petrangeli e autorità congolesi, la via dell’ambasciata italiana sarà intitolata a Luca Attanasio.
A due anni dalla tragica morte del diplomatico, del suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese del Pam (Programma alimentare mondiale) Mustapha Milambo, sarà questa targa, assieme ad altre disseminate in Italia e all’estero, a rappresentare uno dei pochi segni tangibili raggiunti nel percorso di accertamento della verità e riconoscimento degli onori dovuti.
Le indagini
All’indomani del drammatico evento avvenuto nella mattina del 22 febbraio 2021 nel percorso che avrebbe dovuto condurre Attanasio da Goma a Rusthuru – Kivu del Nord, Repubblica Democratica del Congo – per un’ispezione a un progetto Pam finanziato dall’Italia, sono scattate tre inchieste di tre diverse procure.
Quella di Roma, quella congolese e quella del servizio di sicurezza dell’Onu per accertare le responsabilità dei dipendenti del Pam. Due anni dopo sono ancora molte più le incertezze a prevalere sui punti fermi.
La procura di Roma a novembre ha chiesto il rinvio a giudizio dei due funzionari del Pam Rocco Leone e Mansour Rwagaza indagati per omesse cautele, denunciate, oltre che dai nostri inquirenti, anche dal rapporto ufficiale interno dell’Onu.
Ma a tutt’oggi si attende di sapere se l’Onu invocherà per i suoi due dipendenti l’immunità diplomatica o permetterà lo svolgimento del processo.
Sul fronte congolese, invece, si avvia a conclusione presso il tribunale militare di Kinshasa il processo lampo che vede alla sbarra cinque uomini accusati di aver organizzato ed eseguito l’attentato. Per il primo marzo è prevista l’ultima udienza ma su tutto il percorso, inaugurato il 12 ottobre e ripetutamente interrotto (le udienze avrebbero dovuto svolgersi ogni mercoledì ma tra pause natalizie e viaggio del papa, varie sono state cancellate, ndr), gravano pesanti perplessità, a cominciare dagli interrogatori eseguiti al momento dell’arresto (gennaio 2022), senza che gli avvocati fossero presenti.
In quell’occasione i sei – nel frattempo divenuti cinque perché uno di loro, Mauziko Banyene, misteriosamente rilasciato a luglio scorso, è rimasto ucciso a seguito di un linciaggio della folla che lo riteneva un pericoloso bandito – confessarono di aver progettato ed eseguito l’agguato a scopo estorsivo.
Sulla cifra del presunto riscatto si consuma una prima clamorosa discrepanza di valutazione: per gli inquirenti congolesi la somma richiesta sarebbe stata di un milione di dollari, per la procura di Roma, invece, che si avvale della relazione dei Ros tornati dalla missione a Kinshasa lo scorso luglio, solo 50mila dollari.
Le contraddizioni
Al di là della grave mancanza procedurale legata agli interrogatori senza legali, le prime udienze fanno subito emergere altre contraddizioni. Per gli avvocati della difesa, infatti – che hanno ricusato il tribunale militare di Kinshasa perché gli imputati sono tutti civili e nessuno è originario della capitale – le confessioni sono state estorte sotto tortura e una dopo l’altra sono fioccate le ritrattazioni.
Per i nostri inquirenti e la Farnesina, ascoltati da Domani in varie riprese, invece il materiale raccolto dai Ros a luglio riguardante le confessioni, confermerebbe in gran parte le accuse.
Ad aggiungere caos contribuisce, inoltre, la più clamorosa delle ritrattazioni, avvenuta a dicembre. Nel corso di un’udienza, l’imputato Bahati Kiboko ha riferito che all’epoca dei fatti non poteva trovarsi sul luogo dell’attentato perché in stato di detenzione nel carcere di Goma.
Il congolese sarebbe stato liberato proprio nella mattinata del 22 febbraio 2021, esattamente mentre si stava compiendo l’agguato. A conforto di questa ipotesi l’avvocato di Kiboko ha fornito un documento carcerario.
È certamente strano che la difesa si svegli a dicembre, a quasi un anno dall’arresto e due mesi dopo l’indizione del processo. Ma non dovrebbe al tempo stesso risultare difficile per l’accusa provare che l’imputato, come sostiene, fosse stato scarcerato a gennaio del 2021.
Tra ritardi e reticenze, invece, si è arrivati a oggi senza avere certezza assoluta a riguardo visto che i giudici, anziché rivolgersi alle autorità carcerarie di Goma e ottenere un semplice certificato di scarcerazione, hanno scelto di richiedere la documentazione al tribunale di Goma.
La scarsa collaborazione
Il livello di improvvisazione e precarietà a cui si assiste, arriva al termine di due anni segnati da scarsissima collaborazione se non indifferenza da parte del Congo a partire dal suo presidente. Felix Tshisekedi, dopo aver rilasciato a maggio 2021 una roboante dichiarazione di «assicurazione alla giustizia degli esecutori degli omicidi», poi rilevatasi priva di fondamento, è stato due volte a Roma nel 2021.
In occasione del primo viaggio, il 2 settembre, è stato ricevuto dal presidente Sergio Mattarella alla presenza della viceministra degli Esteri Marina Sereni, per una visita lampo durata meno di un’ora.
Tshisekedi ha poi partecipato a Roma al G20 a ottobre in qualità di presidente di turno dell’Unione africana e, a margine dei lavori, ha incontrato il premier Mario Draghi. Tutti si aspettavano che, di ritorno a Kinshasa, il presidente avrebbe dato segnali se non di accelerazione almeno di intervento dopo un sostanziale disinteresse e due rogatorie inevase. Niente, silenzio assoluto.
Bisognerà attendere il luglio del 2022 perché finalmente ai Ros, fino a quel momento costretti a tornare a casa due volte con un nulla di fatto, venga consentito di interrogare i sei indagati e acquisire materiale probatorio, e l’ottobre scorso per l’inizio di un processo.
Nonostante tutto, fonti della Farnesina, sentite più volte, sostengono di essere cautamente soddisfatte della nuova fase che si sarebbe aperta all’indomani della missione dei Ros e dell’indizione del processo, mentre altre sentite alla procura di Roma, che prosegue il lavoro nell’ambito del secondo filone d’inchiesta sul tentativo di sequestro a scopo di terrorismo, riferiscono di ritenere il percorso piuttosto attendibile.
La Farnesina e la famiglia Attanasio nel frattempo si sono costituite parte civile. La scelta della famiglia ha solo gli obiettivi di “entrare” nel processo e, soprattutto, acquisire le carte. «Fino a ora, però – rivela il legale Rocco Curcio – non abbiamo ricevuto nulla e stiamo valutando, se mai ci consegneranno i documenti, di rinunciare alla costituzione di parte civile perché potrebbe accreditare un intero procedimento della cui validità non siamo affatto certi».
Il silenzio di Bruxelles
A questo contesto di mezze verità, mancati interventi e scarsi approfondimenti, va certamente ad aggiungersi il silenzio dell’Unione europea. Un diplomatico di uno dei paesi membri è stato barbaramente ucciso in Africa ma in questi due anni non si sono registrate iniziative meritevoli di nota né richieste ufficiali ai livelli politico e diplomatico.
La famiglia dell’ambasciatore sul finire del 2021, aveva avuto un colloquio con il presidente del parlamento europeo David Sassoli che aveva promesso di seguire personalmente la questione. La morte del politico italiano neanche un mese dopo, ha praticamente chiuso ogni interessamento di Bruxelles da quel momento in poi.
Due anni sono trascorsi da un episodio la cui gravità da un punto di vista umano, geopolitico e diplomatico, ci si aspettava, avrebbe dovuto suscitare reazioni clamorose e condurre a esiti evidenti. I pochi risultati, lo scarso interesse, non solo lato congolese, a ricercare seriamente e approfonditamente almeno di avvicinarsi alla verità, il senso di disillusione che pervade molti, dalla famiglia in giù, fanno temere che la via intitolata a Kinshasa a questo bravo diplomatico, fuori dagli schemi e genuinamente interessato all’Africa, sia più o meno quello che possiamo attenderci.
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