Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra.

Mario Francese seguiva con grande attenzione i più recenti sviluppi di tutte le vicende giudiziarie nelle quali erano coinvolti i principali esponenti mafiosi corleonesi. Un suo articolo (di seguito trascritto) pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 17 ottobre 1976, riguardante una condanna riportata da Leoluca Bagarella, si soffermava con ricchezza di dettagli sul medesimo soggetto e sul cognato Salvatore Riina:

E' Leoluca Bagarella, fratello della maestrina.

Latitante condannato a venti mesi: è cognato del luogotenente di Liggio

Leoluca Bagarella, il fratello minore della maestrina Antonietta, sposatasi nel '74 segretamente con Totò Riina, luogotenente latitante di Luciano Liggio, non si è presentato alla prima sezione del Tribunale, dalla quale è stato giudicato in appello, insieme a Bartolomeo Cascio e a Giuseppe Giambalvo, entrambi di Roccamena, per detenzione abusiva di armi e per contravvenzione alla sorveglianza speciale. Ha saputo così dai suoi legali che i giudici gli hanno confermato la condanna a 20 mesi di reclusione, senza alcun beneficio, neanche quello della sospensione. La pena (pure confermata) è stata invece sospesa a Cascio e a Giambalvo che, in primo grado, dal pretore di Corleone erano stati condannati rispettivamente a 12 e a 14 mesi. Entrambi sono ritenuti i “guardaspalle” di Bagarella.

Il processo dibattuto alla prima sezione del Tribunale (presidente Franco, giudici Nobile e Luzio) è quello che, nel 1973, portò alla ribalta della cronaca il fratello minore dello scomparso Calogero Bagarella, uno dei più temuti gregari di Liggio. Una pattuglia di carabinieri lo sorprese in macchina (7 settembre 1973) al bivio Torrazza di Corleone insieme ai presunti mafiosi Bartolomeo Cascio e Giuseppe Giambalvo, entrambi di Roccamena. A bordo della “1100” su cui i tre viaggiavano, i carabinieri trovarono, ben nascoste, due pistole calibro 22 e munizioni. Per questo episodio, i tre vennero giudicati e condannati dal pretore Conti di Corleone: Leoluca Bagarella a 20 mesi di arresto, Cascio a 12 mesi e Giambalvo a 14 mesi. La pena venne sospesa a tutti gli imputati, che appellarono comunque la sentenza, provocando così il nuovo giudizio del Tribunale. Ritornati liberi, i tre furono proposti per misure di prevenzione. Cascio è stato destinato al soggiorno obbligato nel comune di Amendola (Ascoli) mentre Giambalvo è stato spedito a Genzano (Potenza). L'anno successivo, Leoluca Bagarella fu sorpreso ancora armato di tutto punto, in una casa di San Lorenzo che aveva ospitato gli sposi segreti Totò Riina e Antonietta Bagarella. Ottenuta dopo alcuni mesi la libertà provvisoria, Bagarella junior si è dato alla latitanza. In Tribunale gli imputati sono stati difesi dagli avvocati Gallina Montana, Diego Gullo e Carmelo Cordaro.

La guerra tra “liggiani” e “navarriani”

Nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 6 giugno 1976 Mario Francese individuava in Salvatore Riina il capo della cosca corleonese precedentemente diretta da Luciano Liggio e prospettava il possibile coinvolgimento dello stesso Riina nell’omicidio di Rosario Cortimiglia:

Risorta a Corleone la cosca di Liggio? Sul delitto Cortimiglia l'ombra di Totò Riina

Gli investigatori - come negli anni '50-'60 - hanno iniziato il censimento dei nuovi mafiosi per valutare la portata delle cosche ricostituite. Maria Pomilla, la moglie della vittima, fedele alla legge del silenzio

Rosario Cortimiglia, il capomastro assassinato venerdì mattina in via Misericordia, dinanzi al suo primo cantiere edile, aveva contravvenuto ad un ordine della mafia o è vittima dei contrasti che, generalmente, caratterizzano la riorganizzazione di cosche preesistenti ma, ora, dominate da nuove leve? Questo l'interrogativo che continuano a porsi gli inquirenti a quasi 48 ore dalla feroce soppressione, che porta l'impronta del delitto organizzato nei minimi particolari. Una risposta è difficile anche se carabinieri e polizia, in collaborazione, hanno interrogato a lungo oltre che parenti anche la moglie dell'ucciso, Maria Pomilla, che è anche sorella di quel Biagio Pomilla, caduto in un'imboscata di liggiani il 13 settembre 1963 insieme a don Francesco Paolo Streva e all'incolpevole Piraino. La donna, naturalmente, si è allineata alla vecchia tradizione corleonese non dando alcun contributo utile all'economia delle indagini.

Il delitto Cortimiglia, il quarto della serie corleonese 1976, non sappiamo se a torto o a ragione, fa pensare ad un “padrino” della nuova mafia che, come un fantasma, si muoverebbe da dietro il paravento della tetra Rocca Busambra per tenere accesa a Corleone la fiaccola di Luciano Liggio e dei “liggiani”. Gli investigatori hanno fiutato, negli ultimi tempi, la presenza nel circondario di Totò Riina. «Proprio giorni prima dell'uccisione di Rosario Cortimiglia - ci ha detto il commissario di Corleone - avevo, come per un presentimento, organizzato una battuta nella speranza di trovare qui tracce concrete della presenza del latitante Riina. Non del tutto infondata mi è sembrata infatti la voce secondo cui l'ex luogotenente di Luciano Liggio si era rintanato in posti sicuri e noti, dispersi tra i costoni di Rocca Busambra».

Rimasto il “capo” dei liggiani, sembrerebbe che Riina, il marito-segreto della maestrina Antonietta Bagarella, fosse impegnato, negli ultimi tempi, avvalendosi di collaboratori extracorleonesi (sono stati ormai provati i legami tra la mafia di Liggio e quella di San Lorenzo, Partanna-Mondello e Partinico) a riorganizzare le fila della sua vecchia cosca. Unico ostacolo al programma dei “liggiani”, la presenza a Corleone di molti proseliti del mai dimenticato dottor Michele Navarra che, per quanto trasformati dagli eventi e dalle controversie giudiziarie, in pacifici cittadini, tuttavia potrebbero non aver visto di buon occhio un ritorno del paese sotto l'incontrastato dominio dei “liggiani”.

Questa ipotesi ha indotto carabinieri e polizia a rifare, come negli anni 60, la conta dei mafiosi superstiti, “liggiani” e “navarriani”.

Non si trascura però la tesi secondo cui, anche se a distanza di 9 anni, Rosario Cortimiglia abbia contravvenuto alla sentenza di esilio decretato dalla mafia liggiana nel 1967, quando si trasferì in Germania. Il suo rientro definitivo a Corleone sarebbe stato considerato, oltre che un atto di disobbedienza, anche un atto di forza. Chi aveva propiziato il suo ritorno e chi gli aveva dato garanzia di vita e di pane sicuri? Inoltre la presenza di Rosario Cortimiglia aveva potuto ridestare odi e rancori che, a volte, il tempo non riesce a sopire. Da una parte, il capomastro aveva avuto tra i suoi, due uccisi: il fratello Vincenzo, assassinato l'11 febbraio 1961, e il cognato Biagio Pomilla, trucidato in maniera bestiale in contrada Casale all'alba del 13 settembre 1963. Si scrisse che il cadavere di Pomilla fu trovato in ginocchio come se la vittima avesse supplicato “grazia” fino all'ultimo ai suoi spietati carnefici, che furono anche i carnefici di Francesco Paolo Streva e di Piraino. Dalla parte opposta c'erano stati due assassinati: Salvatore Sottile, caduto nel novembre del 1960, e Salvatore Provenzano, ucciso prima di cadere, dallo stesso Vincenzo Cortimiglia. Episodi difficili a dimenticare.

Sembra che gli investigatori escludano che Rosario Cortimiglia abbia potuto offrire una causale freschissima nei suoi primi cinquanta giorni dal rimpatrio dalla Germania. «Quello di via Misericordia - ci è stato detto - era il primo appalto preso a Corleone da Cortimiglia. Troppo poco per suscitare eventuali rivalità». Quindi resta il passato con i suoi morti assassinati, con storie non sempre chiare nonostante i tanti processi, con sentenze di “tribunali” misteriosi. E basta un incontro improvviso, dopo tanti anni, uno sguardo che sa di odio, un atteggiamento di manifesto risentimento, per ridestare all'improvviso rancori e propositi di vendetta. Su questa strada sarebbe fatalmente caduto l'ultimo ucciso di Corleone.

Nessuna paura dei boss

La mancanza, nelle cronache redatte da Mario Francese, di qualsiasi timore reverenziale verso i più potenti boss mafiosi, è evidenziata dal suo articolo dal titolo “Liggio il processo se lo fuma”, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" dell’8 aprile 1978, e dalla sua intervista al medesimo esponente di "Cosa Nostra" (definito come “un gangster”), apparsa in pari data sul quotidiano e di seguito trascritta:

Porta la fede al mignolo: «E' come se fossi sposato»

Completo grigio chiaro a strisce sottili marrone, maglione blu a girocollo, calzini blu e scarpe nere, occhiali leggermente affumicati, stempiato con capigliatura ancora folta e brizzolata, fede nuziale al mignolo sinistro, mano destra nella tasca del pantalone che lascia appena intravedere le manette. Così Luciano Liggio, 53 anni compiuti a febbraio, si è presentato ieri alla prima sezione della Corte d'Appello. E' entrato in aula disinvolto e compiaciuto dell'interesse che ha suscitato al palazzo di giustizia e persino della nutrita scorta di carabinieri.

Quando i cronisti gli hanno cominciato a rivolgere domande Liggio ha precisato:

«Tutto ciò che potrei dirvi, lo distorcereste perché voi giornalisti dovete soddisfare a certe esigenze...».

- Ho sentito dire - gli ho poi chiesto - che presenterà istanza di revisione del processo con cui a Bari fu condannato all'ergastolo. E' vero?

«Non ho presentato alcuna istanza di revisione».

- Ma ha intenzione di presentarla?

«Lei vuole proprio leggere nelle mie intenzioni?».

- Vedo che porta una fede al dito, è sposato?

«Sono sposato, anzi preciso, sentimentalmente mi ritengo sposato».

- Si tratta della signora Parenzan che le ha dato un figlioletto?

«Si».

Abbiamo chiesto a Liggio della fuga dalla Villa Margherita di Roma. Il boss ha respinto decisamente quanto all'epoca è stato scritto sul suo conto.

«Io non sono mai fuggito. Non ero né sorvegliato né piantonato. E' stato il questore Angelo Mangano a creare di sana pianta questa pretesa mia fuga dalla clinica. Per questo episodio ho subito un processo e sono stato assolto con formula piena, perché il fatto non sussiste».

- Si ritiene coinvolto nell'associazione dei «114» della cosiddetta mafia nuovo corso?

«Io sono costretto a cascare sempre dalle nuvole. Conoscete tutti meglio di me il questore Mangano. L'accusa proviene proprio da Mangano che ha creato tutto di sana pianta».

- Lei era amico di Frank Coppola?

«Per mia disgrazia, ho coabitato con lui per qualche mese nella stessa cella mentre ero detenuto nel carcere di Bari».

- Conosce don Tanino Badalamenti?

«Lo conosco dai tempi della mia adolescenza. Badalamenti, titolare di una azienda pastorizia, veniva spesso nel corleonese per ragioni di pascoli. Poi si fidanzò con una corleonese che abitava vicino casa mia e la cui famiglia era in buoni rapporti con noi. Pertanto anche con Badalamenti divenimmo amici e, poi, addirittura compagni di San Giovanni».

Quindi Luciano Liggio si è seduto sul banco degli imputati. Ha tirato fuori un sigaro “Avana”, lo ha delicatamente liberato dell'involucro e lo ha a lungo annusato. Poi si è rivolto continuamente verso il pubblico per parlare a distanza con una nipote.

Quando l'udienza è stata rinviata a lunedì, Liggio si è allontanato con la sua scorta di carabinieri con lo stesso passo cadenzato con cui era entrato.

«Lunedì non ritornerò. Mi secca tutta questa coreografia. E poi io non sono venuto per il processo. Mancavo da Palermo da 14 anni e, in tutto questo periodo, ho avuto poche possibilità di avere colloqui con i miei parenti. Spero di potere rimanere per qualche tempo all'Ucciardone appunto per vedere con più frequenza i miei».

E poi, rivolto con degnazione ai “paparazzi” che lo avevano bersagliato di flash, il boss, un po' sorridendo, un po' comandando ha disposto:«Mi raccomando, le migliori mandatemele in carcere». Ritratti di un gangster in un “interno”, al palazzo di giustizia.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.

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