Omicidi, vittime intimidite con armi da guerra, ritorsioni. Le due mafie oggi più potenti a Roma e nel Lazio hanno stretto un patto. Ecco chi comanda e chi sono i complici, tra politica, imprese e massoneria
- Omicidi, vittime intimidite con armi da guerra, ritorsioni. Le due mafie oggi più potenti a Roma e nel Lazio hanno stretto un patto. Nuovi documenti investigativi rivelano strategie, accordi, chi comanda e chi sono i complici, tra politica, imprese e massoneria.
- il patto di ferro sancito dalle due mafie, che qui nella città dei palazzi del potere è diventata una cosa sola: cooperano nei traffici, condividono business, usano stessi canali per il riciclaggio e per gli investimenti finanziari legali. E poi ci sono gli appalti, anche per lo smaltimento della spazzatura, come racconta un pentito.
- Non mancano le interferenze nelle campagne elettorale, i voti offerti ai candidati sindaci dei paesi limitrofi alla capitale, gli incontri e i favori chiesti a senatori da imprenditori collusi con entrambe le organizzazioni.
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Il boss Vincenzo Alavaro fuori dal locale del gruppo e dove avvenivano le riunioni
Un cadavere in una zona residenziale di Roma, ritrovato su una panchina del parco circondato dagli antichi acquedotti romani in un rovente pomeriggio d’agosto di tre anni fa. Settembre 2020, un anno dopo, un’esecuzione in pieno giorno, alle 10.30 di mattina sulla spiaggia di Torvajanica, non distante dalla capitale, due killer col volto coperto uccidono un uomo di 38 anni tra i bagnanti nel panico. Qualche anno prima ancora a Torvajanica due uomini coperti dal buio di un tardo pomeriggio di febbraio prendono di mira una villa a colpi di bombe a mano Srcm, un modello in uso all’esercito italiano e maltese. L’obiettivo è un ricco imprenditore, residente in Svizzera, da cui i clan pretendono 25 milioni di euro per un investimento del passato.
Cosa e chi c’è dietro queste azioni degne di una guerra di mafia? Gli indizi sparsi, i personaggi coinvolti, le tracce lasciate per strada conducono a un sistema governato dalle due mafie oggi più ricche: camorra e ‘ndrangheta.
Domani ha ottenuto rapporti investigativi e atti giudiziari finora inediti grazie ai quali è possibile ricostruire il patto di ferro sancito dalle due mafie, che qui nella città dei palazzi del potere è diventata una cosa sola: cooperano nei traffici, condividono business, usano stessi canali per il riciclaggio e per gli investimenti finanziari legali. E poi ci sono gli appalti, anche per lo smaltimento della spazzatura, come racconta un pentito. Mafie che dalla loro hanno le complicità con professionisti, imprenditori incensurati, politici: la borghesia connivente. Con le logge massoniche crocevia di interessi trasversali.
La “Gac”
Potremmo definirla Grande alleanza criminale, “Gac”, che domina la città, la provincia e la regione fino giù al basso Lazio al confine con la Campania. È fondata su un patto, come rivelato da ex boss che hanno iniziato a collaborare con diverse procure antimafia. È la mafia capitale, a trent’anni dalle stragi di cosa nostra in Sicilia: intreccio di violenza, business e relazioni con il potere. Che fin dagli anni ’70 con assetti diversi e nomi differenti ha sempre dettato legge anche quando in città mostravano i muscoli i malavitosi della banda della Magliana con i loro soprannomi perfetti per il Romanzo criminale diventato successo cinematografico. La grande alleanza, invece, ha l’obiettivo di comandare senza mostrarsi, di governare traffici e affari legali senza apparire. E se deve eseguire sentenze di morte paga altri per farlo.
Nei verbali di alcuni pentiti emerge per la prima volta l’esistenza di logge massoniche parallele a quelle ufficiali che dalla Calabria hanno influenza su Roma. Non mancano le interferenze nelle campagne elettorale, i voti offerti ai candidati sindaci dei paesi limitrofi alla capitale, gli incontri e i favori chiesti a senatori da imprenditori collusi con entrambe le organizzazioni.
La “grande alleanza”, dunque, poggia su tre gambe: politica, imprese e professionisti. Le ultime sono vitali per concludere l’operazione più strategica: il riciclaggio del denaro accumulato con il traffico di cocaina, gestito al livello più alto, quello cioè dei fornitori all’apice della catena di distribuzione. I broker della droga di ‘ndrangheta e camorra trattano le tonnellate e le fanno arrivare in Italia. Lo possono fare per i contatti privilegiati con i cartelli sudamericani e per i rapporti nel nord Europa, Olanda e Belgio, con gruppi criminali di origine albanese, storicamente in affari con la ‘ndrangheta tra Anversa e Amsterdam. E da qualche anno presenti anche su Roma. Indagini internazionali condotte da più polizie europee certificano questa saldatura.
La pace e gli accordi
Tra camorra e ‘ndrangheta «fuori dai contesti di appartenenza c’è sempre stato un accordo, per non pestarsi i piedi». E se lo dice Antonino Belnome c’è da fidarsi. Prima di collaborare con la giustizia era tra i capi dei capi della ‘ndrangheta in Lombardia. Le sue parole hanno offerto alla procura antimafia di Roma i codici per decifrare l’enigmatica geografia mafiosa di Roma e dintorni. Belnome faceva parte della cosca Gallace, originaria di Guardavalle, piccolo paese dell’entroterra in provincia di Catanzaro. Dalla casa madre il clan si è ramificato in Italia e in Europa. L’hinterland milanese e Nettuno, basso Lazio, sono diventate le roccaforti della famiglia.
A Nettuno, nel 2005, avevano raggiunto un’influenza tale che il ministero degli Interni aveva deciso di sciogliere il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Il primo municipio laziale a subire questo tipo di provvedimento. Diciassette anni più tardi, all’inizio del 2022 i Gallace comandano ancora a Nettuno e Anzio, condizionano tuttora la politica locale. Ma si sono espansi, radicati fino alle porte della capitale, dove possono contare su relazioni con la camorra napoletana (famiglia Senese), con il clan Casamonica e con altre cosche di ‘ndrangheta ormai con le radici ben piantate nel centro della città.
«Un limite investigativo ha sempre caratterizzato le indagini antimafia sulle mafie nel Lazio», spiega un’autorevole fonte dell’Antimafia, «superarlo vuol dire cominciare a leggere in un quadro unitario fatti che sembrano slegati tra loro, come è stato fatto in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, dove da piccole indagini su singole famiglie si è passati dal 2010 in poi a maxi inchieste che hanno svelato l’unitarietà dei disegni criminali, le alleanze, l’autonomia spesso dalle case madri».
L’impressione è che anche la procura antimafia di Roma con i magistrati esperti in grado di leggere il fenomeno nel suo complesso stia andando in quella direzione. Del resto i documenti ottenuti da Domani rivelano che ogni boss, ogni colonnello, ogni complice, di una cosca è legato alle altri clan della stessa mafia o della camorra. Un’informativa riservata dei detective della Direzione investigativa antimafia di Roma spiega che «il Lazio appare come il complesso laboratorio criminale del quale Roma rappresenta il centro nevralgico intorno ai quale gravitano, comunque, interessi, decisioni e forme autoctone di coordinamento tra più flussi di criminalità organizzata».
La “Cosa unica”
C’è, dunque, quantomeno un dialogo, o addirittura un patto come dice il pentito. Patto che lascia le bande locali subordinate al volere della grande alleanza. Mai emerse prima erano le relazioni tra un’altra famiglia del basso Lazio, i Gangemi, con interessi su Roma, collegata a Gallace, all’ex cassiere Enrico Nicoletti della banda della Magliana, ma anche alla camorra romana e ai Casamonica, il clan conosciuto per il funerale pacchiano organizzato per le vie di Roma con la bara trasportata sulla carrozza trainata dai cavalli, colonna sonora del film “Il padrino” e pioggia di petali di rose dal cielo. «Devono far entrare le organizzazioni forti a Roma ecco perché ce vonno distrugge a noi», commentava così gli arresti e i sequestri subiti uno dei Casamonica preoccupato del dominio di camorra e ‘ndrangheta, le «organizzazioni forti».
Il folklore dei Casamonica, per quanto affidabili alleati, non rientra nei canoni di comportamento della Grande alleanza, la prima regola di questi clan è far credere che non esistono. L’utilizzo della violenza, tuttavia, è sempre frutto di una scelta mai istintiva: prima trattano, tentano con la corruzione, se l’interlocutore accetta diventa loro complice altrimenti si trasforma in vittima da punire. Per usare le parole di uno dei boss della ‘ndrangheta romana: «Il numero uno è una persona che cammina senza pistola, senza fucile, senza niente…perché era una persona che quando arrivava sistemava le cose, metteva subito pace». Chi parla è Giuseppe Penna, ritenuto al vertice del clan Alvaro, alcune settimane fa coinvolto nell’indagine della procura di Roma e della direzione investigativa antimafia che ha svelato l’esistenza della prima cosca calabrese strutturata nella capitale, ossia né imprenditori di passaggio che investono qualche milione né trafficanti slegati dal contesto, piuttosto una vera holding criminale con sede legale a Roma.
Gli Alvaro si compongono di vari nuclei familiari e ognuno di questi è specializzato in qualcosa: riciclaggio, relazioni con il mondo degli insospettabili, droga, estorsioni – usura e quindi intimidazioni alle numerose vittime strozzate dalle richieste della cosca. Sono originari di Sinopoli, paese di poche anime in provincia di Reggio Calabria. L’operazione con decine di indagati e altrettanti arrestati è di poche settimane fa. In realtà i loro affari nel centro di Roma erano noti da tempo e alcuni avevano ottenuto le prime pagine in mezzo mondo quando nel 2009 l’antimafia sequestrò il Cafè de Paris in via Veneto, locale simbolo della Dolce Vita e luogo di ritrovo delle star del cinema dell’epoca: da Marcello Mastroianni, a Federico Fellini, a Anita Ekberg. Dopo il provvedimento dei giudici è stato chiuso, oggi non esiste più, nonostante dopo molti anni la società confiscata fu restituita a Vincenzo Alvaro: i soldi usati per acquisire il Cafè de Paris non erano sporchi. Tuttavia lo stesso Alvaro adesso è di nuovo indagato nell’ultima indagine, considerato uno dei padrini di Roma, la metropoli dove «c’è pastina per tutti», diceva con soddisfazione uno dei reggenti della famiglia per spiegare al suo interlocutore che a Roma c’è profitto per chiunque.
Nell’informativa degli investigatori antimafia sugli Alvaro i detective delineano la rete di alleanze e amicizie tra ‘ndranghetisti di diverse cosche e con altre mafie, in particolare la camorra. Si tratta di nomi rimasti fuori da questa operazione, utili però a mappare la presenza della grande alleanza nella città. Con Alvaro parlano e fanno affari i potenti boss di San Luca, paese considerato la cassaforte delle antiche tradizioni della mafia calabrese. Anche loro residenti a Roma, specializzati nel narcotraffico mondiale a livelli altissimi.
Alvaro è in stretto contatto anche con il casato Farao-Marincola: negli atti gli investigatori documentano riunioni comuni e progetti condivisi. L’elenco è lungo, è la cronaca di un assedio con cosche di Reggio, Rosarno, Gioia Tauro, Palmi, Vibo Valentia che si chiamano Bellocco, Piromalli, Mancuso, De Stefano. Il gotha della mafia della provincia di Reggio Calabria su Roma.
Ristomafia
La cosca Alvaro, come è emerso dai documenti giudiziari, ha un canale diretto con la camorra: con i Moccia originari di Afragola ma adottati dalla Roma bene dei quartieri alti. I Moccia sono usciti vincitori da una guerra feroce tra clan negli anni ottanta in Campania, si sono inabissati, hanno finto la dissociazione per diventare i signori della camorra con affari dal petrolio ai ristoranti, dagli grandi appalti di stato al settore alimentare. A Roma hanno da sempre un fidatissimo uomo, Michele Senese, detto ‘o pazzo, di mestiere trafficante di droga. Libero, fino al 2020, c’è stato il figlio Vincenzo, ma restano in piedi interessi coperti tra prestanome e imprese amiche.
«L’avvio di attività commerciali o di forniture nel settore della ristorazione passava spesso attraverso la figura di Alvaro», scrivono gli investigatori, che così ricostruiscono gli incontri tra don Vincenzo e il nipote di Anna Mazza, nota come la vedova della camorra per essere la moglie di Gennaro Moccia, fondatore dell’omonimo clan ucciso nel 1974. Alla riunione in uno dei tanti ristoranti del gruppo Alvaro gli uomini del clan Moccia e la ‘ndrangheta raggiungono un accordo commerciale: decidono di spartirsi i numerosi clienti del centro storico da rifornire con prodotti da forno che producono entrambi.
I locali, i bar, le aziende che si occupano di ristorazione, censiti a Roma come appartenenti alla ‘ndrangheta e alla camorra sono centinaia: da campo dei Fiori a piazza di Spagna, da San Giovanni a piazza Venezia, fino ai quartieri popolari o quelli più alti. La famiglia Alvaro, a detta di uno dei complici intercettato, avrebbe messo le mani anche sugli appalti delle mense in Rai e ministeri. Uno dei collaboratori di giustizia, Simone Canale, ha parlato anche di uno dei centri commerciali più grandi della città: «è in mano a Pino», per dire che è roba di uno dei boss Alvaro. Informazioni delicate che chi indaga sta cercando di riscontrare.
Il sospetto dell’antimafia è che i milioni accumulati con l’importazione di cocaina siano finiti nel mercato legale della capitale: aziende edili, di trasporto, complessi residenziali, centri commerciali, catene di ristorazione, bar, bistrot, gelaterie, negozi di abbigliamento. Difficile dimostrare il flusso dei soldi specie se dietro una società avviata è controllata da holding estere, fiduciarie, professionisti all’apparenza integerrimi. Ci sono decine di informative dei detective che citano migliaia di segnalazioni di operazioni bancarie sospette inviate all’autorità antiriciclaggio di Banca d’Italia. Ma spesso non è sufficiente per dimostrare il riciclaggio, il più delle volte lo schema societario è così articolato da schermare i reali beneficiari dell’attività. Architetture finanziarie che portano la firma di avvocati e commercialisti esperti del settore. In questo sono specializzati i boss della cosca Mancuso di Vibo Valentia e dei clan napoletani. Messi insieme tutti i loro investimenti nel settore danno l’idea dell’impero milionario: si tratta di cifre che sfiorano mezzo miliardo.
Politica, appalti e sentenze
Dai soldi alla politica. Il pentito Simone Canale ha raccontato molte cose sulla ‘ndrangheta militare, e altre ancora su presunti agganci politici a Roma. Tra i nomi fatti c’è Gianni Alemanno, ex sindaco della città, condannato in appello per finanziamento illecito in una costola dell’indagine “Mondo di mezzo” su Massimo Carminati. Alemanno, secondo Canale, è in contatto con Antonio Penna, boss della famiglia Alvaro nella capitale. Alemanno, non indagato, chiarisce di non aver mai conosciuto Penna e neanche Canale. «Si tratta di un periodo nel quale io non contavo niente, è un sentito dire, io questi personaggi non li ho mai incontrati e neanche sentiti».
Il pentito lega i rapporti agli appalti pubblici, e aggiunge un dettaglio rilevante: «Alvaro e altre due famiglie di ‘ndrangheta (Tegano, Piromalli) sono coinvolte negli appalti Ama con l’immondizia». La società Ama è la municipalizzata del comune di Roma che si occupa della smaltimento dei rifiuti. Se si trattava di calunnie non c’è più tempo per saperlo: Canale è morto a 40 anni nella sua casa di Biella.
Le intercettazioni invece hanno documentato l’interesse del boss Penna per le elezioni di un piccolo comune alle porte di Roma, Monte Compatri. Qui nel 2017 diverse persone si rivolgono a lui per procurare voti alla comunali. «C’ho 50 voti liberi, c’ho pure le carte di identità delle persone sul tavolo… sono 35 signori e 35 vecchietti in più c’ho i miei, supero i 60 voti», diceva intercettato Giuseppe Penna.
E sempre la famiglia Alvaro ha sostenuto alle politiche del 2018 il senatore Marco Siclari di Forza Italia, ex consigliere comunale di Roma: per questo Siclari è stato condannato in primo grado per voto di scambio a 5 anni. Il senatore ha seguito in prima persona e si è speso moltissimo per la campagna elettorale del candidato sindaco del centro destra a Roma, Enrico Michetti, sconfitto da Roberto Gualtieri del Pd.
La grande alleanza su Roma condivide persino i contatti politici se necessario. È il caso di Pasquale Sollo, ex senatore del Pd ed già sindaco di Casavatore: il 28 giugno 2016 Aniello Esposito (indagato successivamente per concorso esterno alla camorra nell’inchiesta sul clan Moccia) si era incontrato a pochi metri dal Senato con il figlio di un esponente della ‘ndrangheta e con Sollo. Era il rampollo della Calabria ad avere un problema da risolvere: per suo padre, legato ai clan che gravitano su Roma, era stata disposta la sorveglianza speciale. L’obiettivo trovare il modo perché la Cassazione annullasse il provvedimento. Per questo Esposito si era mosso sollecitato dagli amici calabresi. Durante il summit con il politico, Sollo spiega che avrebbe interessato della questione Francesco Nitto Palma, ex ministro, magistrato e, oggi, capo di gabinetto della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati.
«Non me lo ricordo proprio», dice oggi Sollo, che poi nel corso della telefonata recupera la memoria: «Se ho fatto il nome di Nitto Palma? Potrebbe essere, ma solo per togliermelo di torno, ma mai l’ho avvicinato, mai ho coinvolto Nitto Palma, non esiste proprio, io non mi sono proprio mosso. Comunque mi ricordo che Esposito mi parlò di questo ricorso». Esposito, in cambio, le ha promesso l’assunzione di suo figlio in un istituto di vigilanza come è emerso in una telefonata? «Potrebbe aver fatto cenno a una mano da darmi, visto che in quel periodo mio figlio era in difficoltà, ma mai mio figlio ha lavorato in aziende di o suggerite da Esposito».
Alla fine il primo luglio 2016 la corte di Cassazione ha accolto il ricorso dei calabresi e rimandato gli atti alla corte d’Appello. Missione compiuta, ma solo a metà. Perché successivamente viene disposta una nuova sorveglianza speciale per l’uomo della cosca, poi confermato da un’altra sezione della suprema corte. Esposito è una figura chiave per capire la grande alleanza su Roma. Imprenditori come lui saldano interessi di entrambe le organizzazioni. E infatti pur essendo, secondo i pm, colluso con la camorra, è stato anche condannato in primo grado a 12 anni e sei mesi per i rapporti con la ‘ndrangheta con un ruolo nell’accoglienza dei migranti.
La borghesia e le logge
Nei verbali di numerosi collaboratori di giustizia sui tavoli dei pm antimafia di Roma ricorrono nomi di professionisti, impresari, consulenti, che nel Lazio avrebbero messo a disposizione di ‘ndrangheta e camorra competenze e conoscenze. Non è raro trovare uno stesso commercialista, un notaio o un avvocato d’affari che collabora con entrambe le organizzazioni su investimenti diversi. È la borghesia al servizio delle cosche romane. Un ambito ancora tutto da scoprire e sul quale si stanno concentrando le attenzioni degli investigatori.
È il caso per esempio di un gruppo di imprenditori usati sia dai camorristi che dagli ‘ndranghetisti per riciclare e per prelevare come fossero bancomat. O di esperti finanziari che dispensano consigli su quali canali riversare il denaro sporco.
I presentabili dell’alta società e gli impresentabili con pagine e pagine di precedenti penali trovano un terreno comune di scambio reciproco: la massoneria. «Deviata», cioè fuori dalle obbedienze ufficiali, ma in qualche modo legate a esse, precisano i pentiti che riferiscono di logge parallele. Logge senza alcun filtro, alle quali possono affiliarsi persino capi mafia in carne e ossa. «Hanno duecento logge in mano», ha dichiarato Canale ai pm, il riferimento è a uomini della cosca Alvaro che farebbero parte di questi circuiti masso-mafiosi insieme ad altri mammasantissima della ‘ndrangheta. Di massoni ne sa qualcosa anche un altro pentito, Marcello Fondacaro: rappresentante di potenti famiglie della provincia di Reggio Calabria presenti su Roma. Prima di collaborare con la giustizia era un medico e titolare di diverse cliniche private anche nel Lazio. È stato membro della massoneria, «delle loggia Giustinianea fino agli anni Novanta su Roma, quindi ho avuto molti rapporti con la loggia di Piazza del Gesù di cui faceva parte anche Andreotti e altri uomini importanti», ha raccontato ai magistrati all’inizio della sua collaborazione. La regola della fratellanza è aiutarsi ovunque sia necessario: quando Fondacaro si è dovuto trasferire di nuovo in Calabria è bastato che chiedesse ai massoni romani i nomi dei referenti in Calabria.
Un sistema articolato, dunque, inaccessibile a semplici soldati e a trafficanti di strada romani, come Fabrizio Piscitelli, “Diabolik”. Il capo ultras della Lazio che si atteggiava da boss anche con padrini che mal tollerano la “caciara”. L’immagine del suo cadavere ritrovato al parco degli acquedotti a Roma il 7 agosto 2019, con cui abbiamo iniziato questo racconto, dice molte cose di come funzionano le alleanze mafiose nella capitale del paese. (1-continua)
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