- Quel 25 novembre 2020, il mondo si fermò. Ma più ancora si fermò Napoli. Da Buenos Aires rimbalzò la notizia che lasciò senza fiato. Maradona era morto.
- La città sembrava imbambolata, come in preda a una nuova narcosi, a un sogno spezzato. Un’atmosfera simile Napoli l’aveva vissuta il 4 gennaio 2015 alla morte di Pino Daniele.
- Altre volte era stato in coma, Diego. Aveva rischiato la vita, quella vita con cui aveva giocato nonostante l’amasse tanto da volerla afferrare in ogni sfumatura. Oltre qualsiasi limite, oltre ogni conformismo. Era morto come era vissuto, nonostante gli applausi. In solitudine.
Quel 25 novembre 2020, il mondo si fermò. Ma più ancora si fermò Napoli. Da Buenos Aires rimbalzò la notizia che lasciò senza fiato. Maradona era morto. Nella sua città d’origine, da solo, lontano dai suoi tifosi napoletani, dalla gente che lo aveva acclamato e ammirato. Il bambino dagli occhi ingenui e dalla gioia di fare di un pallone tutto quello che voleva si era spento per sempre.
Solo un mese prima aveva compiuto sessant’anni. La sua vita appassionata si era bruciata fuori dal campo, rincorrendo se stessa. «Un portatore di orgoglio, contro tutti i poteri a difesa dei Sud del mondo», scrisse Pietro Gargano, che era stato capocronista di un “Mattino” che vendeva 184 mila copie nei giorni dello scudetto.
La città sembrava imbambolata, come in preda a una nuova narcosi, a un sogno spezzato. Un’atmosfera simile Napoli l’aveva vissuta il 4 gennaio 2015 alla morte di Pino Daniele. Ma quello di allora era stato un dolore provato da tanti, ma non da tutti. Era stata la perdita di una parte dell’anima della città, ma non come quella di cinque anni dopo.
Era la differenza tra le emozioni intense, ma personali, che dà la musica e i sogni di entusiasmo, condivisione, successo collettivi, che regala il calcio. Con Diego era andato via per sempre il genio del pallone, l’uomo dei miracoli azzurri. In poco tempo, mentre i social e i siti internet di tutto il mondo impazzivano, la città mise sotto i piedi i divieti anti Covid.
Si affollarono in poco tempo i sacrari dell’icona-Maradona: lo spazio dinanzi lo stadio San Paolo, via De Deo ai Quartieri spagnoli con il primo murale, via Taverna del Ferro dal secondo murale, persino via Scipione Capece. Uno, dieci, mille, infiniti napoletani con foto, lumini funebri, sciarpe, striscioni. Tutti dinanzi alle immagini, ai luoghi. Persi nei loro ricordi personali, aggrappati a una gioia che avevano provato o anche solo immaginato di provare.
Maradona era morto molto lontano. Calpestato da medici cinici, come avrebbero fatto intuire le intercettazioni e le indagini dei magistrati argentini. Probabilmente, curato male dopo l’intervento chirurgico alla testa di qualche giorno prima, lasciato solo da chi avrebbe dovuto restargli vicino come ipotizza l’inchiesta argentina. Almeno nei giorni di una malattia, che aveva dato la spinta finale a un corpo che più volte aveva già rischiato di perdersi.
Altre volte era stato in coma, Diego. Aveva rischiato la vita, quella vita con cui aveva giocato nonostante l’amasse tanto da volerla afferrare in ogni sfumatura. Oltre qualsiasi limite, oltre ogni conformismo. Era morto come era vissuto, nonostante gli applausi. In solitudine.
A migliaia si riunirono sotto la casa di Buenos Aires, gli argentini-Davide che Diego aveva reso vittoriosi contro il Golia-Inghilterra regalando al suo paese una coppa del mondo. Al diavolo la potenza dell’Inghilterra, che quattro anni prima aveva umiliato in guerra l’Argentina per il controllo delle piccole isole Falkland-Malvinas.
Sul campo, e con Maradona, era stata un’altra cosa. Lì non contava la forza delle armi e il denaro, occorreva altro. E quell’altro lo aveva, e lo trasmise a tutta la squadra, proprio “El Diez”. Diego era stato ricoverato d’urgenza nella clinica Oliva di Buenos Aires il 3 novembre 2020, per un intervento chirurgico al cervello necessario a rimuovere un ematoma subdurale.
Si trattava di un problema di salute improvviso, provocato da una caduta, anche se nessuno riusciva a capire quale, dove e quando. L’intervento era andato bene, ma in venti giorni “il Pibe de oro” era stato abbandonato dalla sua forza di reazione, dalla sua voglia di vita. Senza motivazioni, assistito da un’infermiera, visitato periodicamente dai figli, si era lasciato andare. Era morto per un arresto cardiaco, in un corpo appesantito, lo sguardo statico e sorridente nelle foto. Uno sguardo che era già lontano.
Furono tristi e malinconiche le indagini argentine che sollevarono il velo sull’abbandono, le speculazioni, le trascuratezze dei medici che avevano curato il campione argentino. In sette vennero indagati per omicidio colposo dalla magistratura di San Isidro coordinata dal procuratore John Broyad: gli infermieri Ricardo Omar Almirón e Dahiana Gisela Madrid; il coordinatore Mariano Perroni, il medico che aveva deciso le cure a casa, Nancy Forlini; lo psicologo Carlos Angel Díaz, la psichiatra Agustina Cosachov e il neurochirurgo Leopoldo Luque, medico personale di Maradona.
Ciniche le parole registrate nelle intercettazioni, dove i sanitari si lasciavano andare a commenti feroci sul corpo malandato e appesantito del campione. «Inadeguate, carenti e spericolate» venivano definite le cure di medici e infermieri che avevano «affidato al caso la salute del paziente», senza accorgersi che era entrato in agonia da dodici ore.
Cure dichiarate e non seguite, attestazioni fasulle, compensi spropositati: fu parte di un pentolone scoperchiato di tristezze e piccinerie mediche alle spalle di un uomo che non poteva sapere, né difendersi. «Edema polmonare acuto, associato alla riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica» fu il referto finale sulle cause della morte del “Pibe de oro”.
L’atto finale di anni di cure sbagliate, su un uomo indifeso, riconosciuto cardiopatico sedici anni prima con un cuore che funzionava solo al 30 per cento. Negli ultimi suoi anni di vita, Diego era andato avanti imbottendosi di un micidiale cocktail di psicofarmaci, alcol e marijuana anche contro pareri medici.
Per quasi una settimana, non si parlò d’altro in tutto il mondo. Un campione per sempre associato a una maglia. La squadra della città era conosciuta come “la squadra di Maradona”. Fu un tamtam, un dolore unico in ogni quartiere napoletano.
Ai Quartieri spagnoli, ogni balconcino, ogni terraneo mise fuori la sua bandiera azzurra. Le sciarpe con le immagini di Diego spuntarono in ogni casa. Sui display dell’Anm, l’azienda dei trasporti comunale, scorreva il volto di Diego. Città in azzurro, città in lutto con lumini, sciarpe, foto. E pianti, e sensazioni di vuoto. Non c’era più il difensore di tutta Napoli.
Non c’era più il paladino dei diritti di chi si sentiva calpestato, vittima di ingiustizie, di soprusi. Contro i potenti del calcio che si trasformavano agli occhi dei tifosi azzurri nei potenti della vita in assoluto. Diego aveva fatto da parafulmine alle antipatie verso Napoli e i napoletani diffuse in tutt’Italia, assorbendole su di sé, fregandosene perché era il numero uno sul campo.
Lamentosi, sporchi, sfaticati, incapaci, furbi all’eccesso, ladri, menefreghisti delle regole e delle leggi: quanti bolli, quanti pregiudizi sulla città e i suoi abitanti aveva rovesciato Maradona con le sue prodezze. Grazie alle sue vittorie, la città aveva avuto la sua rivincita. A una divinità così, la città poteva perdonare di tutto. E tutto gli perdonò, tutto fece finta di non vedere.
Tutti sapevano del Diego fuori dal campo, ma lo mettevano in secondo piano incantati dalle sue prodezze che non avevano bisogno di allenamenti e orari di vita regolari. Anzi, in tanti avevano fatto a gara per accontentarlo, blandirlo, dichiararsi parte della sua cerchia.
A Maradona riuscì quello che era stato impedito ad Attila Sallustro dopo la morte nel 1983: l’intitolazione dello stadio San Paolo. Per Diego nessuno si oppose, come invece era stato per Sallustro. Il cambiamento di nome fu deciso in nove giorni, con procedura rapida.
La commissione toponomastica del Comune disse sì e la giunta, presieduta dal sindaco Luigi De Magistris, il 4 dicembre 2020 approvò la delibera all’unanimità. Si leggeva nell’atto comunale: «Attraverso le vittorie calcistiche del fuoriclasse argentino a vincere non è stata soltanto la squadra del Napoli, ma l’intera città, che si identifica pienamente in lui; sempre dalla parte dei più deboli e della gente comune, Maradona ha combattuto i pregiudizi e le discriminazioni di cui erano ancora oggetto i napoletani all’interno degli stadi, diventando idolo dell’intera città».
E ancora: «Mai nessuno è riuscito a immedesimarsi in modo così completo nel corpo e nell’anima di Napoli». Stavolta, non si oppose la Curia di Pozzuoli, che si era fatta invece sentire trentasette anni prima impedendo che il nome di San Paolo, sbarcato in Italia proprio nell’area flegrea, fosse sostituito da quello di Sallustro. Napoli aveva lo stadio Diego Armando Maradona. Proprio come Milano che, dal 1980, aveva intitolato l’ex stadio San Siro a Giuseppe Meazza. I santi laici delle due città.
*Questo brano è tratto dal libro Storia del Napoli, Una squadra, una città, una fede, scritto da Gigi Di Fiore, Utet edizioni
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