La Dda di Roma ha sgominato una nuova organizzazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti. “Marcellone”, ai vertici della Banda, importava coca e hashish da Sudamerica e Spagna grazie agli albanesi
«Mi vedi malato mentalmente? ...di’ la verità dai...dai di’ la verità?». Una domanda reiterata con insistenza da Marcello Colafigli, conosciuto come “Marcellone”, già uomo di vertice della Banda della Magliana. Al telefono parlava con Fabrizio Fabriani, considerato dagli inquirenti il suo autista e la sua ombra. «Ma malato no in senso che sei matto fracico», la risposta. E Colafigli, il «matto fracico», è tornato nuovamente in carcere. I carabinieri lo hanno arrestato eseguendo una misura cautelare richiesta dalla procura antimafia di Roma, pm Francesco Cascini, Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Mario Palazzi. In tutto 28 persone raggiunte da ordinanze cautelari: undici sono finite in carcere, 16 ai domiciliari, una con l’obbligo di firma.
Secondo i magistrati, Colafigli era capo di un’associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti. Insomma, passano gli anni, ma Roma resta uno snodo centrale del narcotraffico, dove nuove bande si impongono e vecchie glorie del crimine tornano a fare affari grazie ai rapporti con ‘ndrangheta e albanesi, i più spietati su piazza.
Il “bufalo”
Colafigli, ribattezzato il “bufalo” nella fortunata serie televisiva Romanzo criminale, ha studiato da criminale fin da giovane e utilizzato una delle caratteristiche della malavita romana: la finta pazzia.
Marcellone ci ha provato in ogni modo a farsi considerare matto con perizie psichiatriche accomodanti, gli hanno riconosciuto la seminfermità mentale e ha continuato a fare il pazzo, come il boss dei boss di Roma, Michele Senese, capo dell’omonimo clan che regna nella capitale.
Da giovane ha conosciuto Aldo Semerari, uno dei più importanti psichiatri italiani, amico di camorristi e perito del tribunale e della Banda della Magliana. Il luminare è stato trovato morto ammazzato con la testa sul sedile dell’auto e il corpo nel bagagliaio sotto casa di un sodale di Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata, che con la pazzia ha sempre giocato.
Nella sua pazzia, Marcello Colafigli è riuscito a rimettere in piedi un’organizzazione criminale dedita al commercio di droga, il traffico preferito dalla Banda. Nelle carte giudiziarie compare come alleato del nuovo gruppo anche Walter Garofalo, gambizzato lo scorso 25 marzo in zona Magliana. Posti, nomi e storie che tornano nella città assediata che silente assiste all’uccisione di cittadini innocenti, come accaduto alla signora Caterina Ciurleo, ottantuno anni, colpita mortalmente in un agguato dieci giorni fa.
Colafigli è sempre entrato e uscito dal carcere. Quando ha ottenuto la semilibertà, era già accaduto in passato, è tornato a delinquere. Alle spalle una sfilza di reati e omicidi, come quello di Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi carismatici della defunta Banda della Magliana. A quarant’anni di distanza è ancora una persona temuta. «Perché te c’hai una storia...capisci?...sei un personaggio», gli dicono i suoi fedelissimi nelle intercettazioni.
La comoda cooperativa
L’organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti è stata costruita grazie all’aiuto del romano Alessandro Brunetti e del pugliese Savino Damato. Il tutto, come spesso accade, nell’indifferenza di politica e pubblica opinione.
Quando i boss sono in semilibertà hanno obblighi di permanenza in carcere, ma quando sono fuori dovrebbero frequentare strutture preposte al reinserimento. Colafigli era affidato alla cooperativa agricola Spazi Immensi, ma faceva quello che voleva. La responsabile, ora indagata anche lei, gli garantiva «la possibilità di allontanarsi a suo piacimento dalla cooperativa “coprendolo” in caso di eventuali controlli e redigendo relazioni mendaci sulla sua condotta».
Il boss è recidivo, visto che già in passato le sue frequentazioni con pregiudicati di Ostia gli erano costate la revoca dei benefici. Quando nei primi anni Novanta è stato arrestato non faceva altro che minacciare Otello Lupacchini, il giudice che per primo ha dato la caccia ai boss della Banda. Tanto lui era matto, poteva tutto.
La Colombia
A 70 anni Colafigli era in grado, attraverso la sua rete di contatti, di importare dal Sudamerica e dalla Spagna ingenti quantitativi di cocaina e hashish. Il vecchio boss non lasciava niente al caso. Trenta chili di cocaina sarebbero dovuti partire dalla Colombia via nave attraverso il canale di Panama e arrivare al porto di Napoli. Una volta giunti in Italia un operatore portuale avrebbe assicurato lo sdoganamento e la fuoriuscita del carico da rivendere subito alla mala di Cerignola, in provincia di Foggia.
Secondo gli inquirenti, Colafigli vantava contatti criminali con i vertici delle più importanti organizzazioni mafiose del paese: esponenti della ‘ndrangheta nella Locride, altri della camorra fino ad arrivare agli albanesi, che hanno svolto il ruolo di broker e intermediari con il cartello colombiano. La droga proveniva direttamente da Turbo, nella provincia di Medellin.
Per garantirsi altri carichi futuri l’albanese Erion Hyseni, alias il “biondo”, era anche disposto ad andare in Sudamerica per trattare in prima persona. Sapeva come entrare in maniera illegale nel paese, un po’ meno come eludere il controllo dei militari che setacciano il territorio dei narcos e di cui aveva anche paura, come emerge da alcune intercettazioni: «Cioè un errore ed i militari sparano qua! Se gli dice la testa male non ti dice nemmeno fermo, alt, pam e sparano!».
Il cartello colombiano, a Roma, aveva invece inviato un suo emissario, Yeison Correa Ramirez. In totale l’affare sarebbe costato 200mila euro da saldare tramite l’invio, via posta, di alcune carte di credito cariche del denaro richiesto dai colombiani. Gli stessi albanesi organizzavano per Colafigli l’arrivo di centinaia di chili di hashish dalla Spagna per 1.700 euro al chilogrammo da rivendere a 4.500, da consegnare attraverso i doppi fondi dei camion.
Per il “bufalo”, il grosso carico di cocaina doveva essere uno degli affari finali. «Io voglio investire e chiudere, io con il prossimo chiudo...che questi mi chiudono...capito?» diceva ai suoi uomini. E aveva già pronto un piano di fuga tramite documenti falsi garantiti da un uomo calabrese che gli avrebbe permesso di arrivare in Spagna prima di stabilizzarsi nel Nord Africa, in Marocco.
La Banda
Insieme a Franco Giuseppucci, Enrico De Pedis, Maurizio Abbatino e Nicolino Selis, Colafigli è stato uno dei vertici della Banda della Magliana che ha terrorizzato la capitale tra la fine degli anni Settanta e gli inizi dei Novanta. Come altri esponenti è stato condannato, tra le altre cose, anche per il sequestro e l’omicidio del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere. Il grande “colpo” finito male con cui i ragazzi della Banda si erano presentati all’Italia prima di implodere su sé stessi.
La corsa per Colafigli si è fermata per la prima volta in una sera del 1981 quando è stato arrestato, insieme ad Antonio Mancini, durante l’agguato contro i fratelli Proietti, ritenuti i killer di Franco Giuseppucci. Inutile la fuga sui tetti di via Donna Olimpia. Per loro due il tempo era finito. Mancini, diventato poi collaboratore di giustizia, racconta che Colafigli durante l’arresto non voleva lasciare la sua pistola e le forze dell’ordine erano state costrette a togliergliela dalle mani. Con false perizie è stato rinchiuso nel manicomio di Aversa da dove è riuscito a evadere. Già da allora era «matto fracico».
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