Quarant’anni fa la finale persa dal tennista americano contro Ivan Lendl sulla terra rossa di Parigi. Ma quella sconfitta in cui non ha rinunciato alla sua gravosa natura di attaccante è diventata per milioni di persone la sua vittoria più luminosa
«McEnroe si era ritrovato il mondo contro e non gli restava che combattere. Io pensavo che in realtà il suo corpo ingannasse la mente». Gopi, la protagonista angloindiana del romanzo del momento, T dell’esordiente Chetna Maroo, che gravita attorno a un campo da squash, guardava Mac in tv e non riusciva a capire come potesse sbraitare, urlare all’indirizzo dell’arbitro oscenità varie, beccarsi un penalty point e poi tornare in campo e, magari, mettere a segno un ace. E vincere.
In una sola e per lui dolorosissima occasione Superbrat non tenne fede a questa sua dote: quella che avrebbe fatto di lui l’ultimo attaccante purissimo dell’èra Open a vincere il Roland Garros fino ai giorni nostri. Successe giusto 40 anni fa. E quella finale rappresenta ancora oggi l’esempio più lampante della natura stessa del tennis: un’eterna e spietata lotta contro sé stessi.
La fatica non fa paura
A Parigi chi attacca per definizione o per natura è destinato a giornate meschine. Come ovunque sulla terra europea o sudamericana ma lì, nel catino dello Chatrier, la difficoltà aumenta ancora. Non foss’altro perché è un torneo dello Slam, si gioca al meglio dei cinque set, chi è predisposto alla sofferenza e deve affrontare chi invece ama risolvere gli scambi con lo schema servizio-dritto oppure col serve & volley (oggi giusto qualche panda) sa che gli basta aspettare.
È conscio che più si entra, per l’appunto, sul terreno della resistenza e del combattimento, più i calzini s’insozzano di polvere rossa e più aumentano le possibilità di vincere il match.
Oggi tutto ciò si nota meno perché i top player giocano in modo spesso quasi identico e la fatica non spaventa. Tirano talmente forte che potrebbero giocare pure sulla gomma piuma e il succo tecnico dei match cambierebbe poco.
Ma allora, era il 1984, il tennis era altro. L’anno precedente la Francia era impazzita per un attaccante vero anche se più atletico che fantasioso: Yannick Noah, primo francese a conquistare l’Open di casa dal 1946, quando Marcel Bernard sconfisse in finale Drobny.
Bernard, per la cronaca, è presente pure lui nell’elenco di quelli che hanno vissuto sulla loro pelle le decisioni imperscrutabili del caso o di una qualche divinità desiderosa di scompaginare le vicende umane: quell’anno si era iscritto solo ai doppi, fu convinto all’ultimo momento a giocare pure il singolare perché gli organizzatori non erano riusciti a completare il tabellone.
E nell’èra open (prima era oggettivamente difficile trovare qualcuno che disdegnasse a priori il raggiungimento della rete per conquistare il punto) nel 1976 l’attaccante per pigrizia e disperazione Adriano Panatta aveva conquistato il titolo e il cuore dei francesi: veniva a rete per evitarsi di soffrire oltremisura. Un’esigenza che lo accomunava anche a un altro irripetibile, Ilie Nastase, che a Parigi si era imposto tre anni prima.
Ma in quel 1984 colui che al mondo colpiva la pallina al volo come nessuno prima e nessuno dopo di lui, patì il dolore più cocente: quello di scoprire che la sua arte, su quella terra, non era sufficiente per vincere contro l’avversario più detestato, forse più di Connors: Ivan Lendl.
Un fastidioso ronzio
Nessuna partita più di quella è diventata simbolo dell’esperienza umana che tutti prima o poi siamo destinati a provare: schiantarsi a testa bassa contro i propri limiti. Un limite che in quel caso prese le fattezze di un ronzio, proprio come nell’epica le divinità amavano assumere l’aspetto umano per ingannare il malcapitato di turno.
Quando era avanti due set a zero giocando magnificamente un cameraman della Nbc si tolse la cuffia e la posò al suo fianco. A bordo campo c’era pure Gil De Kermadec, il più grande “studioso” di Mac che filmava a Parigi non già ogni suo incontro ma LUI dentro ogni incontro. Quel materiale imperdibile sarebbe poi confluito nel film godardiano L’impero della perfezione girato da Julien Farault.
Chissà quale dei due ronziii proveniente dalle cuffie ad alto volume fece scattare nella testolina di Mac un interruttore letale, clic, che spezzò la sua concentrazione, lo trascinò a perdere i tre set successivi e a diventare il simbolo inarrivabile dell’impossibilità da parte di un giocatore d’attacco di vincere su quel campo.
Boris Becker a Parigi è arrivato tre volte in semifinale e lì si è fermato. Una volta sconfitto da un suo pari grado sul terreno della tendenza ad attaccare, Stefan Edberg. Che quell’anno, in finale (era il 1989) si arrese al quinto contro Michael Chang, un perfetto interprete della sofferenza da fondo campo.
Se vogliamo annoverare Sua Maestà Roger Federer nel gruppo sempre più ristretto di coloro che hanno privilegiato l’attacco alla difesa allora si deve ricordare che un titolo a Parigi Roger l’ha vinto: era il 2009, Nadal aveva la bua e l’avversario dello svizzero in finale, Robin Soderling, fu battuto anche dalla pressione che i parigini, i quali non aspettavano altro che un successo del Re, gli poggiarono sulle spalle. Se avesse osato infastidire Federer lo avrebbero rinchiuso nelle segrete del Centrale, dove il giornalista e saggista Arthur Koestler, insieme ad altri “soggetti pericolosi” fu rinchiuso allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Alle radici di sé
Ancora oggi McEnroe, per sua stessa ammissione, parla malvolentieri di quella partita di 40 anni fa. Non l’ha mai riguardata o almeno così sostiene nella sua autobiografia. La evita accuratamente anche nel docufilm disponibile su Sky, McEnroe, prodizione Showtime, che è una splendida e prolungata seduta psicanalitica in cui Mac, come mai era successo prima, cerca di arrivare al cuore e alle radici della sua natura.
Riesce nell’intento camminando nella notte di New York vestito come James Dean nella foto di Dennis Stock che, guarda caso, s’intitola Boulevard of broken dreams. Il film è la versione evoluta per voci e immagini di Open di Andre Agassi: dove il personaggio scompare e l’uomo mette a nudo i suoi limiti.
Quell’uomo che 40 anni fa voleva vincere a Parigi con l’estro e l’attacco, con il corpo che conduceva il braccio a compiere gesti impensabili per chiunque altro. Lui che in quel 1984 non aveva ancora elaborato il lutto del ritiro del suo alter ego, dell’unico che gli trasmetteva affetto: Bjorn Borg si era fatto da parte un anno prima.
Nel film Mac scende nel suo abisso che poi è il nostro. Dice, con accecante lucidità, Billie Jean King: «Nel tennis, chi va a rete lo fa perché cerca la luce». Mac quella luce l’ha invocata ma in fondo non l’ha mai trovata. Soprattutto al Roland Garros. E come lui tutti o quasi quelli che hanno cercato di arrivare in fondo tentando di sottrarsi alla pazienza, alla fatica, alla sofferenza.
In fondo Mac è stato un superumano, altro che un supermaleducato. E quella sconfitta contro Lendl in cui non ha rinunciato alla sua gravosa natura e ha cercato insistentemente quella luce anche mentre cercava di non sentire il brusio che usciva dalla cuffia di un cameraman, è diventata per milioni di persone la sua vittoria più luminosa.
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