Per far funzionare gli ospedali del Servizio sanitario nazionale servono specialisti e infermieri. Ma i neolaureati non ci vogliono andare, e quelli anziani preferiscono il privato, dove guadagnano di più
Per far funzionare gli ospedali pubblici del Servizio sanitario nazionale (Ssn) servono i medici, ma i giovani medici neolaureati negli ospedali pubblici non ci vogliono andare, e quelli anziani se possono scappano a lavorare nel privato, dove guadagnano molto di più.
Risultato: gli ospedali pubblici funzionano sempre peggio e quelli privati sempre meglio. Se non si interviene in fretta, la crisi della sanità italiana diventerà irreversibile.
Oggi negli ospedali pubblici del Ssn ci sono 15mila specialisti in meno rispetto al 2015. Sui 103.000 medici ospedalieri ora in servizio, nei prossimi 5 anni ne andranno in pensione 30.000, che verranno sostituiti solo in minima parte.
Perché accade questo? «È semplice, se lavori in un ospedale pubblico hai uno stipendio basso, lavori a ritmi disumani, e sei strangolato dalla burocrazia. Su dieci ore che stavo in reparto, per due visitavo i pazienti e per otto mi toccava riempire montagne di cartelle e moduli inutili, poi se ti va male arrivano i parenti di un tuo paziente che ti insultano, ti fanno causa o ti mettono le mani addosso perché secondo loro hai sbagliato la diagnosi o la terapia», mi confessa un ex primario di un ospedale bolognese che vuole restare anonimo.
«Così mi sono dimesso, e ora lavoro in una clinica privata dove guadagno tre volte tanto, da 5 a 15mila euro, e poi posso fare visite nel mio studio privato, cosa vietata nel pubblico, e vivo da re». Nel 2023, come lui altri 5.000 medici del Ssn sono andati in pensione anticipata o si sono dimessi. Un’enormità.
Gli altri paesi europei
Per diventare medico, devi studiare sei anni di corso di laurea più almeno quattro di specialità: alla fine, un medico neospecializzato italiano guadagna uno stipendio di 1.718 euro, uno tedesco o francese di circa 3.000. Lo stesso vale per un medico in carriera.
Secondo le stime dell’Ocse, calcolando il valore d’acquisto, un medico italiano guadagna in media 105mila dollari l’anno, un suo collega tedesco 188mila, uno olandese 190mila, uno britannico 155mila, uno belga 140mila, e uno francese 120mila. Peggio di noi fanno solo l’Estonia con 76mila, e la Grecia con 64mila.
Gli ospedali pubblici scontano marchiani errori di programmazione commessi dai vari governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Con la legge n. 266 del 2005, il governo Berlusconi ha varato il blocco del turnover del personale sanitario, che è stato confermato da tutti i successori.
Così, in media, su 100 medici andati in pensione, 10 non sono stati rimpiazzati. In regioni come il Lazio, la Sicilia e la Campania il numero sale a 30. Nei prossimi 5 anni, un medico su 3 impiegati negli ospedali pubblici italiani andrà in pensione, e molti non verranno mai sostituiti. Per non parlare di tutti quei medici – anche primari – che si stanno dimettendo ora dagli ospedali pubblici per andare a lavorare nel privato, dove guadagnano fino a 10 volte di più.
Molti di loro hanno la sindrome da burnout dopo aver lavorato sino allo sfinimento nei tragici anni del Covid. Per questo hanno alzato le braccia e sono fuggiti. Dove? A lavorare nelle cliniche private, oppure all’estero.
Il settore privato
Gli ospedali e le cliniche private accreditate sono strutture a proprietà privata – introdotte dalla legge n.502 del 1992 varata dal governo Ciampi – che dovrebbero, in collaborazione con gli ospedali pubblici, «garantire i livelli essenziali ed uniformi di assistenza» sanitaria.
C’è un problema: visto che sono private, funzionano secondo la legge del profitto, cioè più soldi incassano e più il proprietario è contento. Certe strutture private sono fiori all’occhiello, ma in generale si concentrano sulle attività più remunerative e più sicure.
Per esempio, le cliniche private preferiscono effettuare interventi chirurgici di routine, poco rischiosi e rimborsati con alte tariffe, quali l’inserimento di protesi del ginocchio, la sostituzione di valvole cardiache o i bypass coronarici, le gastrectomie e i bypass gastro-intestinali per la cura dell’obesità.
Sono private molte delle cliniche per la riabilitazione neurologica (che necessita di cure lunghe e costose), quasi tutte le comunità psichiatriche (dove un paziente resta ricoverato per anni), e praticamente tutte le Rsa (dove gli anziani vivono anche per decenni).
Così, le cliniche private assumono cardiochirurghi, chirurghi ortopedici, neurologi o psichiatri “star” di chiara fama che attirano più clienti e vengono pagati con stipendi molte volte superiori a quelli garantiti dal pubblico.
I servizi più remunerativi
Per certi tipi di interventi e di trattamenti sanitari, sempre più pazienti si rivolgono agli ospedali privati, mentre quelli pubblici si svuotano.
Invece, pochissimi ospedali privati offrono servizi di pronto soccorso o di terapia intensiva, perché sono reparti molto costosi da gestire, dove i ricoveri sono brevi e i rischi di perdere il paziente elevatissimi, e quindi garantiscono profitti risicati.
Così gli ospedali privati spesso non hanno né pronto soccorso né terapia intensiva, mentre gli ospedali pubblici non trovano medici e infermieri per fare funzionare i loro pronto soccorso e le loro terapie intensive, e sono costretti a ricorrere a medici pagati a gettone, spesso neolaureati o pensionati richiamati in servizio.
Questo stato di cose si ripercuote sulle scelte dei giovani medici: molti neolaureati snobbano certe specializzazioni – restano vacanti il 57 per cento dei posti disponibili nelle scuole di specialità in medicina d’emergenza e urgenza, il 17 per cento in quelle di anestesia e rianimazione e il 74 per cento in quelle di radioterapia – perché sanno che dopo sarebbero quasi sicuramente costretti a lavorare in un ospedale pubblico, guadagnando pochissimo.
Invece, ogni anno si riempiono le scuole di specialità che garantiscono lucrosi guadagni futuri, come la cardiochirurgia o la chirurgia estetica, che puoi esercitare nel privato. Come se ciò non bastasse, circa il 10-20 per cento dei nostri medici neolaureati o neospecializzati ogni anno fugge all’estero: dei 9.000 nuovi medici che si laureano ogni anno, più di 1.000 emigrano verso paesi dove guadagnano di più e vivono sereni.
Gli infermieri
Per gli infermieri le cose non vanno meglio. Molti infermieri italiani fuggono all’estero perché, secondo le stime Ocse, lo stipendio medio di un infermiere italiano è di circa 39mila dollari, numeri ben distanti dagli 87mila percepiti da uno belga, dai 59mila di uno tedesco, dai 56mila dollari di uno spagnolo o dai 48mila di uno britannico. Dei 264.000 infermieri in organico, 21.000 andranno in quiescenza entro breve, ora ne mancano già 13mila ma da qui a qualche anno diventeranno almeno 25mila.
Cosa fare per risolvere la crisi del nostro sistema sanitario? Un’ottima riforma sarebbe già pronta. Il 26 aprile 2021, l’allora presidente del Consiglio Mario Draghi ha presentato al parlamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Il Piano è suddiviso in sei progetti di investimenti e riforme, definite “missioni”, e al punto sei c’è la salute.
I fondi del Pnrr
Il Pnrr, su 191,5 miliardi di euro da investire tra il 2022 e il 2026, ne destina ben 15,63 alla “missione salute”. Che si divide in due componenti. La prima componente prevede «interventi che intendono rafforzare le prestazioni erogate sul territorio grazie al potenziamento e alla creazione di strutture e presidi territoriali, come le case di comunità (finanziate con 2 miliardi di euro) e gli ospedali di comunità (un miliardo), il rafforzamento dell’assistenza domiciliare (204,5 milioni), lo sviluppo della telemedicina e una più efficace integrazione tra tutti i servizi sociosanitari» (2 miliardi).
La seconda componente consentirà «il rinnovamento e l’ammodernamento delle strutture tecnologiche e digitali esistenti» (più di 2,6 miliardi), dato che negli ospedali verranno sostituite almeno 3.100 grandi apparecchiature sanitarie quali tac, ecotomografi, e angiografi; «il completamento e la diffusione del Fascicolo sanitario elettronico, una migliore capacità di erogazione e monitoraggio dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) attraverso più efficaci sistemi informativi». Infine, altre risorse sono destinate alla ricerca scientifica. È un piano di riforme meraviglioso: ma senza medici e infermieri come lo metteremo in pratica?
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