Viviamo tempi violenti, e non solo nella sanità. I genitori aggrediscono gli insegnanti che richiamano i loro figli e, troppo spesso, cresce il desiderio di farsi giustizia da soli. C’è bisogno di garantire la sicurezza, certamente, ma anche di offrire esempi positivi di dialogo, di rispetto reciproco e di comunicazione partecipata
Non ho mai subito una violenza fisica in ospedale, ma ho dovuto ascoltare, sostenere e proteggere molti medici e molti infermieri ai quali è capitato e che sono rimasti traumatizzati dall’esperienza. Insulti e minacce fanno parte della vita quotidiana di ogni pronto soccorso, e gli infermieri, che stanno più a lungo a contatto con i pazienti, sono le vittime preferite dei loro assalti o di quelli dei loro famigliari. Negli Stati Uniti si è calcolato che ogni anno sette infermieri di pronto soccorso su dieci subiscono una violenza fisica o verbale e quasi uno su quattro di loro dichiara di aver seriamente pensato di cambiare reparto, se non addirittura mestiere. Nel 70 per cento dei casi le vittime sono donne.
Allargando lo sguardo al di fuori del pronto soccorso, si stima che in Italia circa l’80 per cento dei medici e degli infermieri di qualunque reparto abbia subito almeno un’aggressione fisica o verbale (spesso molte di più) nel corso della propria vita professionale.
Si tratta dunque, in qualche modo, di un fenomeno endemico, di un rischio professionale di chi lavora nella sanità, analogo al rischio che un carpentiere corre di ferirsi con una sega o un allevatore di ricevere un calcio da un cavallo. Non dico questo per minimizzare, né penso che a questo stato di cose ci si debba rassegnare, tutt’altro.
Ritengo però che per impostare correttamente una riflessione su questo tema bisogna evitare semplificazioni e sensazionalismo. È invece necessario ragionare sulle cause che scatenano aggressività e violenza e distinguere i diversi contesti in cui queste si manifestano.
Due episodi di cronaca
Cominciamo con due episodi di cronaca che, nell’ultimo periodo, hanno catalizzato l’attenzione del dibattito pubblico (anche se le notizie di violenze, purtroppo, sono ormai quasi all’ordine del giorno): l’aggressione da parte di decine di familiari e amici di un uomo e di una donna deceduti a Foggia e a Pescara contro i chirurghi toracici e gli oncologi dei rispettivi ospedali.
Questi casi, pur nella loro estrema gravità, hanno poco a che fare con il problema della violenza contro medici e infermieri così come si manifesta nella maggioranza dei casi. L’aggressione non è venuta da parte di un familiare esasperato o di una persona sotto l’effetto di alcol o droghe, come capita normalmente, ma da gruppi organizzati.
Un problema di ordine pubblico che, se non si innescherà un meccanismo imitativo, è destinato a ripetersi solo raramente e che deve essere affrontato con gli stessi strumenti di prevenzione e di repressione che si utilizzano nei confronti delle frange violente degli ultras o dei black bloc.
I pazienti violenti
Scendendo di un gradino, troviamo la violenza agita da individui con problemi psichiatrici acuti, o alterati da alcol o droghe. Sono persone in diversi modi fuori controllo ma, allo stesso tempo, sono pazienti che necessitano di aiuto da parte delle strutture sanitarie.
Non è un caso che l’approccio al paziente violento faccia parte della formazione di molti operatori sanitari, in particolare degli psichiatri e di chi opera nell’ambito dell’emergenza. Oltre alla formazione, che è essenziale, queste situazioni possono essere affrontate solo in presenza di strutture adeguate e di un numero adeguato di operatori.
Le linee guida che si occupano della contenzione dei pazienti fuori controllo e pericolosi, indicano in 4 o 5 il numero di persone necessario per immobilizzare un soggetto violento evitando il rischio di subire o di procurare lesioni. La partecipazione di guardie giurate o di altri addetti alla sicurezza è senz’altro utile in questi casi.
È infatti documentato che la sola «manifestazione di forza», cioè la presenza di più operatori schierati e in grado di intervenire, sia in grado di ricondurre a più miti consigli un’alta percentuale dei potenziali aggressori. Purtroppo molti ospedali non possono offrire questo genere di risposta, per la carenza di medici e infermieri e spesso per la totale assenza di personale di sicurezza. Ben venga in questo senso l’iniziativa dichiarata dal ministero della Salute di aumentare il numero di postazioni di polizia presso gli ospedali. Sperando che alle parole seguano i fatti.
I diritti dei malati
L’ultimo gradino è anche quello più frequente, perché riguarda i due terzi della aggressioni che hanno “solo” carattere verbale e che giungono per lo più da parte di pazienti o familiari esasperati, a ragione o a torto, per quelli che ritengono mancanze o inadeguatezze dell’assistenza.
Scrivo “solo” con qualche esitazione, perché in un luogo di cura e di relazione come deve essere l’ospedale la comunicazione non dovrebbe mai trascendere i limiti della correttezza e perché ricevere insulti come risposta al proprio impegno non aiuta certamente medici e infermieri a lavorare con serenità nell’interesse dei loro pazienti.
Eppure, queste situazioni sono quelle che più di tutte dovrebbero interrogare gli amministratori e gli operatori degli ospedali. È giusto imporre a familiari e amici orari limitatissimi di visita ai loro cari e spesso escluderli totalmente dall’accesso in pronto soccorso? È giusto lasciarli ore o giorni senza informazioni dettagliate su quanto sta succedendo, o limitare la comunicazione a frettolosi incontri in corridoio?
La pandemia ha peggiorato di molto uno stato di cose che già non era buono prima, fornendo una giustificazione alla separazione dei pazienti dalla propria famiglia anche al di là del ragionevole e del lecito. Negli Stati Uniti e in molti paesi europei, l’accesso libero dei familiari nei reparti viene considerato una regola di basilare rispetto dei diritti del malato. Non in Italia. Negli stessi paesi, la comunicazione delle buone e delle cattive notizie, e anche degli eventuali errori commessi, fa parte della formazione universitaria di medici e infermieri. Non in Italia.
La carenza di personale giustifica solo in parte tutto ciò.
«Il medico considera il tempo della comunicazione quale tempo di cura», è scritto dal 2014 nel Codice di deontologia medica. Dal 2019 nel Codice deontologico degli infermieri si trova invece scritto che «nell’agire professionale l’infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo».
Nel rispetto delle migliaia di medici e di infermieri che improntano a questi principi il loro lavoro quotidiano, credo sia importante che anche le istituzioni e la politica vi prestino maggiore attenzione.
Viviamo tempi violenti, e non solo nella sanità. I genitori aggrediscono gli insegnanti che richiamano i loro figli e, troppo spesso, cresce il desiderio di farsi giustizia da soli. C’è bisogno di garantire la sicurezza, certamente, ma anche di offrire esempi positivi di dialogo, di rispetto reciproco e di comunicazione partecipata.
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