- Questa è la rubrica Vino sul Divano. Ogni mese, nell’inserto Cibo, esploriamo le tendenze dell’enologia guardando soprattutto al di là dei confini italiani perché – se è vero che il nostro paese possiede la più grande biodiversità di vitigni autoctoni – è importante smettere di guardarsi l’ombelico e vedere cosa succede altrove.
- Il mercato dei vini, delle birre, dei liquori analcolici negli Stati Uniti è più che raddoppiato negli ultimi 4 anni, una tendenza non solo americana che vede un interesse sempre crescente verso quei prodotti cui viene fisicamente tolta la componente alcolica.
- A livello europeo c’è stato un lungo dibattito relativamente alla denominazione di questi prodotti che oggi, a livello normativo, non possono essere definiti come vini. Le cose dovrebbero però cambiare entro la fine dell’anno, per i soli prodotti non a denominazione di origine (IGP o DOP).
Nella sua newsletter “Planet Money” di un paio di settimane fa Greg Rosalsky, affermato autore della National Public Radio americana, raccontava dei crescenti numeri dei vini, delle birre, dei liquori analcolici negli Stati Uniti. Un mercato in grande espansione che secondo i dati di Nielsen solo nell’ultimo anno è cresciuto del 20 per cento sul precedente e del 120 per cento in appena quattro anni. Un dato straordinariamente piccolo se comparato a quello delle bevande alcoliche in generale, il cui mercato nel paese supera i 200 miliardi di dollari, ma che è riuscito a passare da una quota dello 0,22 per cento nel 2018 a quella dello 0,47 per cento nel 2022.
Numeri ancor ridotti che si affiancano però a un certo fermento: negli ultimi tempi la cantante Katy Perry ha lanciato De Soi, un aperitivo frizzante analcolico; la modella Bella Hadid ha co-fondato Kin Euphorics, società che offre bevande analcoliche; lo chef David Chang e l’ex giocatore di football J.J. Watt hanno investito in Athletic Brewing, un birrificio che produce sole birre analcoliche. Il tutto mentre si sono appena chiusi in Qatar i mondiali di calcio, occasione di grande visibilità per la Budweiser Zero, birra ufficiale della manifestazione.
Bevande che a prima vista possono sembrare come delle sostitute di quelle alcoliche ma che in molti casi sono un “complement”, termine che in economia si riferisce a un bene frequentemente acquistato insieme a un altro, a esso affine. I dati di Nielsen suggeriscono che questo potrebbe effettivamente essere il caso: l'82 per cento delle persone che acquistano birre, vino e liquori analcolici comprano abitualmente anche bevande alcoliche tradizionali.
Una crescita che non si limita ai soli Stati Uniti: secondo un’indagine dell’anno scorso di Iwsr, società specializzata nelle analisi del mercato delle bevande, il settore dei prodotti senza o a basso contenuto in alcol, dominato dalla birra e seguito a distanza dalle cosiddette bevande ready to drink, vale nel mondo 10 miliardi di dollari, con una previsione di crescita annuale fino al 2025 di circa il 6 per cento nei dieci principali mercati internazionali.
È in questo contesto che si inserisce il vino senza o con basso contenuto alcolico, qui in Italia prodotto ancora quasi del tutto sconosciuto ma che in altri paesi non solo anglosassoni rappresenta una realtà sempre più affermata. Ne sa qualcosa Martin Foradori, con la sua Hofstätter famoso produttore altoatesino che da qualche vendemmia produce in Germania un “Alcohol Free Sparkling”, uno spumante a base di riesling che proprio lui vede non tanto come un competitor dei vini tradizionali quanto come come un prodotto in grado di attirare nuovi consumatori, persone che non vogliono o non possono bere alcolici.
A livello europeo c’è stato un lungo dibattito relativamente alla denominazione di questi prodotti che oggi, a livello normativo, non possono essere definiti come vini.
La definizione merceologica prevede infatti che un vino, per essere chiamato tale, abbia un contenuto di alcol non inferiore al 9 per cento in volume. Un vino dealcolato, un vino cui viene cioè tolto l’alcol tramite processi fisici sempre più accurati, capaci di non stravolgerne (eccessivamente) il profilo organolettico, non aveva però una categoria merceologica di riferimento, in etichetta poteva essere solo indicato come generica bevanda analcolica.
Cosa che, salvo sorprese, dovrebbe cambiare dalla fine di quest’anno quando potrà essere indicato in etichetta il processo: “vini dealcolizzati” (con una gradazione inferiore allo 0,5 per cento) o “vini parzialmente dealcolizzati”. Una scelta chiara e trasparente, che vuole mettere in evidenza quello che realmente sono: vini che sono stati sottoposti a un trattamento per la rimozione totale o parziale dell’alcol con le tecniche già ammesse dall’Oiv (Organizzazione internazionale della vigna e del vino).
Una dicitura che comunque non si applicherà ai prodotti a denominazione di origine, che siano DOP o IGP: nessun rischio quindi di trovare a scaffale un Prosecco o un Taurasi dichiaratamente senz’alcol a meno di un cambio dei rispettivi disciplinari di produzione.
Quello che rimane è l’interesse, sempre crescente. Lo scorso 6 gennaio il New York Times nella sua famosa sezione Wirecutter ha pubblicato una selezione dei migliori vini analcolici in circolazione negli Stati Uniti: tutti vini, i più interessanti spumanti e bianchi, che non costano al consumatore meno di 25 dollari.
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