Negli ultimi trenta giorni uccisi altri 4 cronisti. Sono 147 quelli assassinati negli ultimi vent’anni. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam (66), durante tutta la Seconda guerra mondiale (68) o in Iraq (71). Stragi di mafia e stragi di stato che si confondono
- Le inchieste sulle uccisioni di giornalisti in Messico si aprono e si chiudono velocemente, non ci sono mai testimoni, c'è un'inerzia degli apparati investigativi che sembra favorita dall'alto.
- Dopo ogni delitto c'è sempre qualcuno che tende a banalizzare, a sporcare la vittima, a depistare. L'ha fatto recentemente anche il portavoce del presidente Jesus Ramirez, prima il solenne proclama «che gli assassini verranno assicurati alla giustizia» e poi un velenoso tweet.
- Il direttore del giornale online Monitor Armando Linares, dopo l’omicidio dell’editorialista Roberto Toledo, ha commentato: «Sappiamo da dove viene tutto questo».
Non c’è mai un colpevole per un giornalista che muore ammazzato in Messico. Mai. Sicari e mandanti restano sempre impuniti, ignoti. Li sequestrano di giorno per strada, di sera quando escono dalle redazioni, li abbattono con la pistola, li bruciano. O li fanno a pezzi a colpi d’ascia, con una sega elettrica, poi li avvolgono in teli di plastica e li sotterrano in fosse comuni. Cadaveri che non si trovano più.
Negli ultimi vent’anni ne hanno uccisi 147. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam (66), durante tutta la Seconda guerra mondiale (68) o in Iraq (71). Il Messico è il cimitero dei giornalisti.
Terra di mattanza per chi scrive o chi denuncia, stragi di mafia e stragi di stato che si confondono, narcotrafficanti e governatori corrotti, la vita dei reporteros vale meno di niente. In questo 2022 sono già quattro i colleghi uccisi.
Nella prima settimana di gennaio il direttore del sito Inforegio José Luis Gamboa Arenas, accoltellato al porto di Veracruz. Nella seconda settimana di gennaio Lourdes Maldonado Lopez di Televisa, a Tijuana. Nella terza settimana di gennaio Margarito Martinez, fotografo, anche lui a Tijuana. L’ultimo è stato l'editorialista del giornale online Monitor Roberto Toledo, a Zitacuaro nel Michoacan.
Nel 2021 se ne sono andati per mano violenta altri nove cronisti, nel 2020 otto. Tutte esecuzioni annunciate. Pedinati, minacciati, alcuni di loro avevano chiesto protezione direttamente al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador. Mai ricevuta una risposta. Sono soli i giornalisti messicani, carne da macello.
Inchieste chiuse velocemente
Le inchieste sulle loro uccisioni si aprono e si chiudono velocemente, non ci sono mai testimoni, c’è un’inerzia degli apparati investigativi che sembra favorita dall’alto. Come se fosse una disposizione, una direttiva da eseguire.
Dopo ogni delitto c’è sempre qualcuno che tende a banalizzare, a sporcare la vittima, a depistare. L’ha fatto anche il portavoce del presidente, Jesus Ramirez. Prima il solenne proclama «che gli assassini verranno assicurati alla giustizia» e poi un suo tweet per precisare velenosamente che Roberto Toledo «non era neanche un giornalista».
Da ventidue anni commentava sul portale Monitor le ruberie e le scorrerie degli amministratori di Morelia, la capitale del Michoacan. Il suo direttore Armando Linares si è limitato a commentare: «Sappiamo da dove viene tutto questo». Tutti sanno tutto di tutti ma i giornalisti messicani continuano a morire.
Otto anni fa, nel 2014, con il regista Massimo Cappello abbiamo girato il Messico per ricostruire la cronaca di un massacro, un reportage su carta e un documentario. Al tempo i colleghi morti erano poco più di ottanta, nella conta delle vittime non abbiamo inserito gli editori e gli stampatori di giornali, anche loro nel mirino dei killer.
Silencio, il titolo del documentario. Silencio perché nessuno deve parlare, nessuno deve ascoltare dalla Baja California sino al Belize. Anche una piccola verità è una condanna in quello sterminato paese che sopravvive nel terrore.
Le piste “passionali”
Le loro storie sono tutte uguali, cambia solo il luogo, la data. Armando Rodríguez Carreón, cronista di nera per El Diario de Juárez, aveva pubblicato un articolo su un nipote del procuratore locale che aveva frequentazioni con uno dei capi di un cartello della droga.
Prima qualche avvertimento, poi un sicario è entrato una sera dentro il garage di casa sua e gli ha sparato in mezzo agli occhi davanti alla figlia di otto anni. L’inchiesta sul suo omicidio era seguita da un agente federale che appena si è avvicinato ai mandanti è stato ucciso. Lo ha sostituito un altro agente federale e, dopo un mese, è stato assassinato anche lui. Mandanti sconosciuti, altri tre omicidi finiti in archivio.
Siamo andati a raccontare la vita e la morte di Regina Martinez, corrispondente del settimanale Proceso da Xalapa, la capitale dello stato di Veracruz. La notte del 28 aprile del 2012 l’hanno trovata morta nella sua casa, torturata e strangolata. Regina, negli ultimi suoi articoli, aveva citato nove poliziotti coinvolti nel commercio di stupefacenti.
Le indagini hanno preso la consueta piega messicana – ben conosciuta anche da noi in Sicilia o in Calabria – della pista privata. Prima hanno detto che Regina era stata uccisa casualmente durante una rapina, poi «per motivi passionali». Sesso e corna.
Il Proceso ha mandato a Veracruz uno dei suoi inviati migliori, Jorge Carrasco, ma dopo qualche settimana l’ha richiamato in redazione. Gli hanno fatto sapere che avrebbero ucciso le sue due figlie se avesse continuato a fare domande su Regina.
Mandante il capo della polizia
A Città del Messico abbiamo incontrato una delle giornaliste più famose, Anabel Hernandez, autrice del best seller La terra dei Narcos, inchiesta sui signori della droga, in Italia è stato pubblicato nel 2014 da Mondadori.
Per sfuggire alle ritorsioni Anabel ha vissuto negli Stati Uniti per lungo tempo, adesso è in Europa. Un paio di mesi dopo l’uscita del suo libro è diventata ufficiale la notizia che Genaro Garcia Luna, il capo della polizia messicana, aveva ingaggiato alcuni agenti per assassinarla.
Il suo racconto sulla mattanza dei giornalisti: «Il sessanta per cento delle aggressioni in Messico avvengono per volere delle autorità. Non provengono dai cartelli della droga, non provengono dai trafficanti di persone, non provengono dai piccoli spacciatori. Provengono dalle autorità federali, da poliziotti o da militari, o dai governatori, dalle polizie statali e perfino dai sindaci».
E aggiungeva: «Proprio perché sono una giornalista, io ho più paura delle autorità, degli assassini di giornalisti con l’uniforme della polizia che dei sicari che sono per la strada».
Dall’inferno di Città del Messico siamo scesi fino alle spiagge bianche della Riviera Maya, dove tutto deve sembrare quieto, tranquillo, divertente. E dove i cartelli della droga hanno come soci camorristi napoletani e mafiosi calabresi che riciclano i proventi della cocaina nel lusso di Cancun o a Playa del Carmen, una sorta di Little Italy dove i nostri connazionali sono proprietari di residence, hotel, terreni. Nessuno indaga.
Ma lì al sud, per quanto può valere nello scenario messicano, i giornalisti stanno più al riparo. Più affari e meno sangue. Con Cappello non avevamo ancora finito di montare il documentario e nello stato di Sinaloa hanno ucciso José Antonio Gamboa Uria, il direttore della Nueva Prensa.
Non sapevamo ancora quando il film sarebbe stato visto in Italia e a Città del Messico hanno ammazzato il fotoreporter Ruben Espinosa e a Veracruz il cronista di Televisa Juan Heriberto Santos Cabrera. È un elenco che bisogna sempre aggiornare, non si chiude mai. I giornalisti messicani sono cadaveres andantes, cadaveri che camminano.
Nell’inferno del Tamualipas
Il viaggio in Messico è cominciato ed è finito sopra Monterrey, sulle strade deserte del Tamaulipas dove ci ha accompagnato Diego Enrique Osorno, un giovane talento del nuevo periodismo latino-americano.
Ha scritto dalla “frontera chica”, un territorio che comprende cinque municipalità confinanti a sud con il Nuovo Leon e a nord con il Texas. Per i giornalisti messicani è la zona più infame di tutte. Ci sono interi paesi che si sono svuotati, abbandonati dalla popolazione intimorita, Matamoros, Nueva Laredo, San Fernando.
C’è Ciudad Mier che nel 1990 faceva seimila abitanti e oggi ne ha poco più di novecento. Ogni attività e ogni spazio è in mano ai poliziotti e ai militari complici dei trafficanti. È qui che lavora Diego Osorno. La sua casa, un pian terreno nel quartiere antico di Monterrey, ha sette vie di fuga.
Intorno fanno buona guardia lo zio Gerónimo Gonzáles Garza e una mezza dozzina di suoi amici, tutti sordomuti. Una volta erano anche loro mojados, cioè “bagnati”, clandestini che entravano negli Stati Uniti attraversando a nuoto quel fiume che dalla parte americana si chiama Rio Grande e da quella messicana Rio Bravo.
Lo proteggono loro Diego, i compagni dello zio. L’amico Osorno un giorno ci ha portato a vedere le ville sfarzose dei sindaci messicani, quelle costruite con i soldi rubati. Di mattina quei sindaci sono in Messico a fare i sindaci, al tramonto ritornano nelle loro residenze negli Stati Uniti. Sono a pochi chilometri, al di là del fiume, nella contea di Starr. In una piccola città hanno investito il frutto di anni e anni di corruzione. Una piccola città del Texas che si chiama Roma.
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