- Mafioso atipico, molto appariscente, vestiti firmati, auto di lusso, Rolex al polso e tante donne. Mai nella storia di Cosa nostra si è conosciuto così a fondo la vita sentimentale di un boss.
- Figlio di don Ciccio, anche lui capomafia cresciuto come campiere dei D’Alì, aristocratica famiglia trapanese proprietaria di terre, di saline e di banche. Il rampollo dei D’Alì, Antonio, è stato sottosegretario all’Interno in un governo Berlusconi prima di essere condannato, un mese fa, per concorso esterno dalla Cassazione.
- Considerato l’erede di Totò Riina, negli ultimi anni ha preferito salvaguardare la sua libertà piuttosto che prendere in mano le redini dell’organizzazione.
Lo cercavano tutti. Anche i mafiosi. Non sapevano neppure loro che fine avesse fatto, perché più che a pensare a Cosa nostra ormai pensava solo a sé stesso. Alla sua sopravvivenza, braccato come un lupo, sempre più solo. Sorte infame per uno che era predestinato a diventare il capo dei capi.
Un boss palermitano si sfoga nel buio di una casa dove, uno “spillo”, una microspia, cattura ogni parola: «Ma questo che fa? Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, arrestano i tuoi cognati, prendono la tua gente e tu niente...niente, non ti muovi...ma fai bordello no?». Bordello: bombe, attentati, omicidi. Niente. Qualcuno lo dava anche per morto.
Mai un segno della sua esistenza, neanche un respiro. Solo rumori. È in Venezuela, è a Tunisi, è ad Amsterdam, è a Bagheria, è in Austria da una vecchia fidanzata. Dove sei Matteo?
Per trent’anni gli hanno dato la caccia, provando a immaginare che faccia avesse dietro a quei Ray-Ban che erano la sua protesi, se era ancora magro come un chiodo – u’ siccu lo chiamavano – oppure aveva messo su qualche chilo, come capita a ogni uomo che ha sorpassato la sessantina. Chissà.
Non più residente
In occasione dell’ultimo censimento comunale, otto anni fa, i messi del municipio di Castelvetrano, dopo avere verificato di persona che «Messina Denaro Matteo fu Francesco nato il 26 aprile 1962» non abitava più in via Alberto Mario 51/5 lo avevano cancellato dall’elenco dei residenti.
Castelvetrano, 30.893 abitanti meno uno: lui, l’erede vero o presunto di Totò Riina, il boss delle stragi Falcone e Borsellino, degli attentati in Italia del maggio 1993. Ergastoli su ergastoli. Ma nessuna traccia evidente. Niente bordello.
In via Alberto Mario 51/5, quasi una strettoia, un giorno ho bussato a tutte le porte. Da una parte c’erano i familiari che lo nascondevano, dall’altra quegli altri che portavano il suo stesso cognome ma dicevano che erano «i parenti buoni».
Il capo della tribù era Francesco, don Ciccio. Era stato campiere dei D’Alì, aristocrazia trapanese, possidenti terrieri, proprietari delle saline di Trapani, banchieri. Un rampollo del casato, Antonino D’Alì, è stato sottosegretario all’Interno in un governo Berlusconi e un mese fa condannato a sei anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa. Tutto torna sempre in Sicilia.
Don Ciccio invece l’hanno fatto trovare morto fra la sua campagna e il mare il 30 novembre del 1998, era anche lui latitante da un bel po’. Un infarto, gli hanno infilato il vestito buono della festa e l’hanno consegnato cadavere alla giustizia.
È in quel momento che Matteo Messina Denaro è diventato davvero Matteo Messina Denaro. Uno sfogo di Totò Riina nel carcere milanese di Opera: «Suo padre, questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. È stato qualche quattro o cinque anni con me, impara bene, minchia, e poi tutto in una volta...». Tutto in una volta: ma che hai fatto Matteo?
Tante, troppe fidanzate
Da ragazzo non ha mai impersonato il classico mafioso. Perché era vistoso, gli piaceva apparire troppo. Andava in giro come un manichino, vestiti firmati, Rolex al polso, auto di lusso, discoteche. E femmine. Mai nella storia di Cosa nostra si è conosciuto così tanto e così a fondo la vita sentimentale di un boss. I racconti sulle sue conquiste, probabilmente c’è anche un po’ di leggenda, si sprecano.
E cominciano con “Asi”, Andrea Haslehner, una viennese che ogni estate scendeva in Sicilia per lavorare alla reception dell’hotel Paradise Beach di Selinunte, lì a un passo da Castelvetrano. Bella, colta (si specializzerà qualche anno dopo in Germanistica e in Romanistica), parlava inglese e francese, russo, spagnolo.
Matteo perde la testa. Giugno e luglio e agosto è sempre buttato nei lidi di Marinella, Natale e Capodanno in Austria. Fidanzati dal 1988 al 1993, quando inizia la sua latitanza subito dopo il mandato di cattura per la strage di Firenze. Ma c’è un altro uomo che fa la corte ad “Asi”, è il vicedirettore dell’hotel dove lavora la ragazza, si chiama Nicola Consales. Fa una brutta fine: lo ammazzano la sera del 21 febbraio 1991.
La mafia scritta lascia sempre tracce. Con i suoi “pizzini”, ritrovati nei covi, Matteo Messina Denaro svela gli altri amori. Una è Sonia M., una ragazza di Mazara del Vallo che frequenta prima della latitanza: «Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione..». Un annuncio solenne. E poi, che fa Matteo? Sparisce.
Non rinuncia all’amore neanche nei primi anni da ricercato.
Fra il 1995 e il 1996, non è una ma sono due le donne della sua vita. La prima è Franca Alagna che poi, il 17 dicembre del 1995, partorisce una bambina. Porta il nome della nonna, la mamma del boss: Lorenza.
L’altra donna è Maria Mesi. I due sono legatissimi, lui le regala profumi, abiti e videogiochi che poi saranno ritrovati ad Aspra, in via Milwaukee 40, strada intitolata ai figli dei pescatori siciliani emigrati sul lago Michigan, nel Wisconsin. Maria gli scrive: «Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito. Ti amo e ti amerò per tutta la vita, Tua per sempre Meri».
Dalle indagini salta fuori anche una Francesca, di lei si sa niente. Come niente si sa di un fantomatico figlio maschio che avrebbe avuto in questi trent’anni di mistero. Voci, solo voci: l’avrebbe chiamato Francesco. Proprio come vuole la tradizione: Francesco come il nonno.
Impasto fra arcaico e moderno
Matteo Messina Denaro è un impasto di arcaico e moderno, la sua terra – la provincia trapanese in fondo alla valle del Belice – per gli antichi siciliani è il luogo dove c’è “la mamma”, l'origine di tutto ciò che ruota intorno all’universo mafioso. E, non a caso, dopo averlo chiamato u’ siccu, dopo averlo chiamato Diabolik per la sua passione per il personaggio dei fumetti, Matteo è diventato “testa dell’acqua”.
Cosa ha fatto il figlio di don Ciccio dopo che, nel giugno di trent’anni fa, si è confuso fra le tenebre?
Il giudice Giovanni Falcone è morto da tre mesi, il procuratore Paolo Borsellino da quarantacinque giorni e un pomeriggio di settembre, a Mazara del Vallo, pochi chilometri da Castelvetrano, il commissario capo Rino Germanà è sulla sua auto e sta tornando a casa.
Germanà era il dirigente della polizia di Mazara, brillante e raffinato investigatore, l’avevano promosso capo della squadra mobile di Trapani. Ma, improvvisamente, qualcuno al ministero dell’Interno, ha pensato di rimandare quel ficcanaso di Germanà a Mazara. Una punizione: aveva indagato troppo e bene sui segreti mafiosi trapanesi.
I boss afferrano al volo il senso del trasferimento e, isolato, Germanà quel pomeriggio di settembre si ritrova tre uomini armati di kalashnikov che cominciano a sparare. Il suo ricordo: «Un’auto si accosta, vedo un uomo che spara col fucile dal finestrino. Freno, mi rannicchio e schivo il colpo. Riesco a scendere e sparo anch’io». L’agguato è sul lungomare di Mazara del Vallo.
Su quell’auto – una Fiat Tipo – sono in tre. Alla guida c’è lui, Matteo Messina Denaro. Il secondo è Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Il terzo è Giuseppe Graviano. Ancora Germanà: «Tornano indietro e sparano ancora. Una volta, due volte. Corro in spiaggia e riesco a salvarmi fra le onde». Tre mafiosi di alto rango per un poliziotto. È lì battesimo di fuoco, Matteo Messina Denaro entra nel cuore di Totò Riina.
Il tesoro dello zio Totò
All’inizio lo cercano senza troppa convinzione. Ma poi il suo peso dentro l’organizzazione criminale aumenta di anno in anno. Fino a quando si capisce che conta. E che è protetto. «Ogni volta che eravamo vicini al latitante accadeva sempre qualcosa. C’erano spifferi, c’erano notizie che in un modo o nell’altro trapelavano, c’erano troppe cose strane che accadevano attorno alla nostra indagine. Sapevo che così non l’avremmo mai arrestato. E allora iniziai a indagare su una talpa in tribunale. Ma non l’ho mai trovata», ha raccontato qualche anno fa Teresa Principato, procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo che successivamente ha lasciato il testimone ai colleghi Marzia Sabella e Paolo Guido (quest’ultimo è il magistrato che ha guidato l’indagine del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri per la cattura di ieri del boss ndr).
Una partita truccata per molto tempo. Con operazioni di “terra bruciata” intorno al boss, centinaia di favoreggiatori fermati, la sorella Patrizia arrestata, nipoti e cognati neutralizzati. Ma lui sempre libero. Garantito. Perché, e perché così a lungo? Per il suo sapere sulle stragi del 1992 e del 1993 – quindi conoscenza diretta anche di mandanti al di fuori della cerchia strettamente mafiosa – e probabilmente anche per il tesoro che custodiva: l’archivio segreto di Totò Riina.
Quello che il procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, non aveva trovato trent’anni fa nella villa palermitana dove era nascosto il capo dei capi. I carabinieri del colonnello Mario Mori e del capitano Ultimo non lo avevano perquisito e non lo avevano sorvegliato.
Un fedelissimo di Bernardo Provenzano, il pentito Antonino Giuffrè, che aveva un posto d’onore nella cupola, ha detto: «Matteo era il gioiello di Riina, lui ha i documenti che sono stati portati via dalla casa di via Bernini dopo l’arresto dello zio Totò».
Quante volte è sfuggito alla cattura? Tante. Ma un giorno ha rischiato molto. Era il maggio 1997, appena quattro anni dopo il principio della sua latitanza, datata giugno 1993. Sempre ad Aspra, in quella via Milwaukee. I poliziotti arrivano a Maria Mesi dopo uno scambio di lettere con una certa Assunta, la seguono, scoprono dove abita ma quando entrano sentono solo l’odore di Matteo. Nel frigorifero i poliziotti trovano una confezione di caviale, nella dispensa barattoli di salse austriache e un barattolo di Nutella, sul tavolo due bottiglie di vino. Su una sedia un videogioco Nintendo, una stecca di Merit, un costosissimo bracciale appena acquistato in una delle gioiellerie più esclusive di Palermo. Matteo era lì, ma non c’era più.
Il mito dell’imprendibile
Nasce il mito dell'imprendibile. E tutti che raccontano qualcosa di epico su Matteo, sulla sua intelligenza, sul suo carisma, sul suo potere. Per almeno dieci anni s’imbasticono storie fantastiche, c’è persino un consigliere comunale di Castelvetrano, tale Calogero Giambalvo detto Lillone per la sua stazza, che al telefono s’inventa con un amico di averlo incontrato un giorno in contrada Zangara, fra gli ulivi di Castelvetrano dove è cresciuto Matteo.
È emozionatissimo, confessa al suo interlocutore Lillone: «Mi ha riconosciuto, mi ha abbracciato, poi ha allungato una mano e ha preso dalla mia bisaccia un coniglio selvatico che avevo appena cacciato..mi sono messo a piangere per la commozione..». Arrestato e assolto: non era vero niente, Lillone millantava.
Come non era vera quell’altra vicenda dove si sono sprecati fiumi d'inchiostro – ci siamo cascati come peri, personalmente mi sento ancora in colpa per non avere valutato bene quali manovre erano in corso in quei mesi intorno al boss – dove Matteo Messina Denaro rivela sé stesso.
È lo scambio di lettere fra lui e l’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, uno condannato per traffico di stupefacenti e assolto per associazione mafiosa che, questa era la versione che ci hanno propinato, intratteneva un dialogo epistolare con Matteo. Sono stati scritti pure dei libri.
Quando cita Amado e Pennac
Il capomafia era “Alessio”, Vaccarino si firmava “Svetonio”, il segretario dell’imperatore Adriano, scrittore latino vissuto a cavallo fra il primo e il secondo secolo dopo Cristo. Lettere private che diventano pubbliche.
Con Matteo-Alessio che cita Orazio, ricorda l’Eneide, si infervora per Jorge Amado, ragiona su Toni Negri, prova una sconfinata ammirazione per Bettino Craxi. E, rassegnato, ammette «di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto» rispecchiandosi in quel personaggio, di professione capro espiatorio, inventato dalla fantasia di Daniel Pennac.
Ma quale Alessio e quale Orazio. La corrispondenza con Vaccarino – che nel frattempo è morto – quasi sicuramente è stata curata da qualche agente dei servizi segreti che voleva stanare Matteo. «Da sempre sono un uomo dello stato», è andato ripetendo per anni l’ex sindaco, abilmente guidato dagli apparati. Con il boss che si era esibito riportando le frasi di Amado e adattandole alla sua persona: «Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica». Testuale su Craxi: «Fu l’unico politico di razza». E su di sé: «Io oramai vivo fuori dal mondo, e lo preferisco perché non mi riconosco più in questa ipocrita società..Non amo la vita...io non ci sono stato bene in questa terra, la mia vita è stata un guazzabuglio di sofferenze, delusioni fallimenti, ma ancora si sentirà molto parlare di me». Fa anche una rivelazione, che se fosse stata vera e non confezionata, avrebbe confermato un’altra atipicità del boss fra i boss. Confessa di non avere più fede, di non credere in Dio.
Doppi e tripli giochi con Matteo sempre più latitante. Intanto gli danno la caccia gli investigatori dei reparti di eccellenza di polizia e carabinieri – lo Sco e il Ros – i servizi ronzano sempre nei paraggi. Fino a quando c’è l’“incidente”. Un’indagine di polizia e un’altra dei carabinieri, i primi che vogliono intervenire e i secondi che vogliono temporeggiare per prendere Matteo, l’allora procuratore capo di Palermo Francesco Messineo che ordina una retata e la querelle che va a finire davanti al Consiglio superiore della magistratura che solleva da ogni addebito il procuratore.
Turista a Roma
E poi le talpe, i corvi, i veleni. E altri misteri. Quando Matteo Messina Denaro sale a Roma su un’utilitaria fra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 e alla fontana di Trevi incontra Giuseppe Graviano. A Roma ci sono anche Fifetto Cannella, Vincenzo Sinacori e Francesco Geraci. Sono lì per uccidere con “armi corte” Giovanni Falcone, il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia.
Lo devono pedinare, controllare ogni suo movimento prima di farlo fuori. Fanno i turisti. La soffiata ricevuta da Totò Riina dice che il giudice frequenta abitualmente Il Matriciano, un ristorante in via dei Gracchi. Si appostano inutilmente lì per giorni. Ma il vecchio boss di Corleone aveva capito male, Giovanni Falcone andava spesso a mangiare a La Carbonara di Campo de’ Fiori e non al Matriciano a Prati.
Appena se ne accorgono Matteo e gli altri si spostano, cambiano quartiere ma arriva l’ordine di Totò Riina dalla Sicilia: «Dovete scendere, a Palermo ci sono cose più grosse per le mani». È l’annuncio della strage di Capaci, l’autostrada sventrata, il terremoto del 23 maggio.
E poi c’è il 15 gennaio 1993, il giorno dell’arresto di Totò Riina a Palermo. Quella mattina si sarebbe dovuta riunire la Cupola, Matteo è l’unico dei boss che arrivava da fuori, dal trapanese. I pentiti sveleranno cosa disse Leoluca Bagarella quel giorno: «Meno male che i carabinieri non hanno seguito Totò, altrimenti avrebbero arrestato pure Messina Denaro, Graviano, Biondo e tutti gli altri».
Ma la furia dei Corleonesi che sono ancora liberi non si placa. «A metà maggio, Matteo mi mostrò un libro che raffigurava gli Uffizi», racconterà Vincenzo Sinacori che intanto decide di collaborare con i procuratori palermitani. Il 14 maggio i killer di Palermo sono a Roma e tentano di uccidere Maurizio Costanzo, con l’esplosivo che Matteo Messina Denaro aveva fatto arrivare nella capitale nella primavera del 1992.
Il 27 maggio scoppia la bomba che sventra Firenze, muoiono Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, e la moglie Angela Fiume, custode dell’Accademia dei Georgofili, insieme alle loro figlie, Nadia aveva nove anni, Caterina meno di due. L’incendio uccide anche lo studente universitario Dario Capolicchio, che di anni ne aveva ventidue. Intanto Matteo sta a Palermo, sta a Trapani, forse sta anche a Castelvetrano. A casa sua.
L’impero economico
Il suo valore sul mercato cresce sempre di più. In cinque anni sono quasi sei i miliardi di euro che sequestrano a prestanome a lui riconducibili, terreni, supermercati, opere d’arte e pale eoliche. Molto interesse agli affari e poco a Cosa nostra, tant’è che Totò Riina, ancora in vita, si lascia sfuggire il suo malumore: «Questo signor Messina, questo che fa il latitante, sempre ai pali pensa. Pensa ai pali per fare soldi e non a noi».
Il resto è una prigionia sempre più difficile, la malattia e sempre e solo guai in famiglia. Due cognati che gli fanno venire il mal di testa. Uno – Rosario Allegra – prometteva anche agli amici voti in cambio di soldi. Immorale. L’altro – Gaspare Como – è stato pestato a sangue probabilmente dallo stesso Matteo perché si vantava del parente illustre anche quando avrebbe dovuto tacere. Le quattro sorelle di Matteo – oltre Patrizia ci sono Bice, Giovanna e Rosetta – lo adorano. Il fratello Salvatore tace. La figlia Lorenzina è un’adolescente ribelle. La mamma Lorenza nel salotto ha appeso un ritratto del suo figlio prediletto in stile Andy Warhol. Basterà l’affetto della famiglia per consolare Matteo anche da prigioniero, o Matteo da oggi in poi si sentirà troppo solo e vorrà parlare con qualcuno?
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