Il boss latitante dal 1993 è uno stragista. Il suo impero economico e le complicità imprenditoriali passano in secondo piano. Non è un capo diverso da Totò Riina: entrambi hanno le mani sporche di sangue e hanno devastato la Sicilia
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23/03/2008 PALERMO, CENTRO STORICO. UNA SCRITTA SU UN MURO.
Matteo Messina Denaro non è solo il boss in giacca e cravatta, l’elegante padrino che da giovane era famoso per essere uno sciupafemmine. Messina Denaro, latitante dal 1993, è soprattutto uno stragista, come conferma la sentenza del tribunale di Caltanissetta, che lo ha condannato all’ergastolo per le stragi mafiose del 1992: le bombe al tritolo di Capaci e via D’Amelio, quelle cioè che hanno ucciso i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il verdetto, dunque, certifica il suo ruolo attivo nelle stragi. Al pari del sanguinario Totò Riina, Messina Denaro ha acconsentito al massacro dove hanno perso la vita oltreché la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, anche gli agenti di scorta dei due magistrati: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
L’avvocato Vincenzo Greco – che rappresenta la famiglia Borsellino – ha parlato di «un ulteriore tassello per trovare la verità». Già, un altro tassello, non l’ultimo però. Perché in questa storia di tritolo, morti ammazzati e strategie criminali, mancano ancora molti frammenti per completare il puzzle di responsabilità. A partire dal ruolo dei servizi segreti deviati. Nelle numerose inchieste sugli attentati sono emerse alcune figure di collegamento tra apparati sporchi dello stato e Cosa nostra. Ma ancora manca una verità giudiziaria.
Oltre all’ergastolo, il padrino Messina Denaro, conosciuto anche con il soprannome di “Diabolik” o “lo Zio”, è stato condannato «all’isolamento diurno per la durata di 18 mesi». Dovrà pagare le spese processuali e risarcire le parti civili. La corte ha infine dichiarato l'imputato «interdetto dai pubblici uffici» e «decaduto dalla responsabilità genitoriale».
Quest’ultima è una condanna pesante. È messo in discussione il suo ruolo di padre, una procedura che il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha avviato da tempo. Una misura che ha scardinato alcune dinamiche interne ai clan, che vedono nell’allontamento dei figli un pericolo peggiore del sequestro dei beni.
L’impero economico e finanziario messo in piedi dalla famiglia Messina Denaro, nonostante la lunga latitanza di Matteo “lo Zio”, è descritta in migliaia di pagine giudiziarie: il padrino di Castelvetrano si è cinrcondato infatti di imprenditori di altissimo profilo, che hanno investito per conto suo. Dalla grande distribuzione all’affare delle energie rinnovabili, eolico e fotovoltaico.
Un boss che ama la bella vita, si è detto. Ricco anche da latitante, per questo diventato icona per le giovani leve della mafia. Ma Messina Denaro adesso è prima di tutto uno stragista, un assassino, dice la corte che lo ha condannato.
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