Il 12 luglio Zdenko Ferjancic, un detenuto del carcere di Trieste, è morto, secondo le prime ricostruzioni, per «overdose da metadone». Il giorno prima c’era stata una rivolta nell’istituto, durante la quale alcuni detenuti avevano dato assalto all’infermeria. Ora ci si interroga su quello che è stato fatto, o non è stato fatto, per impedire quel decesso. E il suo avvocato ha presentato un esposto in procura.

L’11 luglio, dunque, è il giorno in cui nel carcere di Trieste è scoppiata una rivolta, come nei giorni precedenti in altri istituti penitenziari italiani, segnati da condizioni sempre più precarie e da un numero di suicidi che nel 2024 ha già segnato la quota record di 56. A Trieste i detenuti hanno dato alle fiamme lenzuola e mobilio vario presenti nelle celle, mentre dalle finestre piovevano oggetti in strada. Alla rivolta hanno partecipato circa 130 detenuti, spinti dalle precarie condizioni in cui sono costretti a vivere.

«Da mesi il numero delle persone detenute si aggira tra le 250-260 a fronte di una capienza regolamentare di 139 persone. A ciò vanno aggiunti il caldo di questi giorni e le cimici, che sono riaffiorate nonostante le disinfestazioni che vengono effettuate regolarmente», spiega Elisabetta Burla, garante triestina dei diritti dei detenuti. Non è chiaro cosa abbia fatto precipitare la situazione, si parla anche di presunti abusi di potere nei confronti dei detenuti.

La rivolta è andata avanti per qualche ora e i detenuti, tra le altre cose, hanno dato assalto all’infermeria. Dopo alcuni negoziati falliti, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto ingresso nell’istituto, usando anche lacrimogeni. Ci sarebbero stati scontri con i detenuti, poi è tornato l’ordine.

Il 12 luglio pomeriggio Zdenko Ferjancic, detenuto sloveno 47enne, è stato trovato morto nella sua cella. A lanciare l’allarme non sono stati gli agenti penitenziari, ma i detenuti con cui condivideva la cella: erano in nove, a proposito di sovraffollamento.

Ferjancic era stato arrestato nel 2022 a Gorizia. Era accusato di spaccio di sostanze stupefacenti, «alcune cessioni irrisorie e isolate nel tempo avvenute nel 2019, in parallelo al suo lavoro principale», spiega il suo avvocato Paolo Bevilacqua. Questo lo ha fatto finire in carcere, insieme alla compagna con cui convive da 15 anni. Ferjancic viveva a Nova Gorica, a 500 metri dal confine italiano, ma non ha potuto scontare la custodia ai domiciliari perché la legge italiana non permette di farlo all’estero. L’uomo ha così passato gli ultimi due anni in cella.

In primo grado è stato condannato a sei anni, una pena che è aumentata con il decreto Caivano e che non ha dunque permesso di fare richiesta per la messa alla prova. A novembre ci sarebbe stato l’appello ma il 12 luglio Ferjancic è deceduto proprio in carcere, un luogo dove in Italia si muore 13 volte più che nel mondo libero.

Ferjancic «aveva problemi latenti di tossicodipendenza e soffriva di depressione e disturbo bipolare, motivo per cui gli venivano somministrati psicofarmaci», sottolinea il suo avvocato, che prospettava un percorso di affidamento al Serd, i servizi territoriali per le tossicodipendenze. Ora l’avvocato vuole vederci chiaro sul decesso.

«Se fosse morto per overdose da metadone ci sarebbe una grossa responsabilità del carcere, non è ammissibile che succeda questo. Potrebbero esserci delle responsabilità attive e omissive», sottolinea Bevilacqua, che ha firmato un esposto diretto alla Procura in cui si sottolinea che «il proprio assistito potrebbe essere deceduto in conseguenza dell’overdose di farmaci» e si chiede di fare luce sulla «co-responsabilità causale di quanti saranno ritenuti, a vario titolo, coinvolti nella produzione dell’evento, per aver omesso, ovvero, non correttamente vigilato l’ordine pubblico carcerario, ovvero, e comunque, causato materialmente la morte in cella del detenuto».

La storia ricorda quanto successo nelle carceri italiane nel 2020, quando tredici detenuti morirono nel corso di alcune rivolte per “overdose da metadone”, in circostanze mai del tutto chiarite e senza che sia mai stata accertata alcuna responsabilità. Se nel 2020 erano finite sotto accusa le modalità di conservazione della sostanza negli armadietti e le alte quantità stoccate, oltre che le mancate perquisizioni successive alle rivolte che avevano portato a decessi fino a due giorni dopo, ora la morte di Ferjancic a Trieste a 24 ore dalla rivolta e il ricovero di altri detenuti in overdose pongono gli stessi interrogativi e con l’esposto si chiede di accertare eventuali omissioni di soccorso, falle nella vigilanza e nella custodia dei farmaci.

In attesa dell’autopsia per capire meglio cosa sia successo, l’avvocato Bevilacqua tiene aperte tutte le piste. «Potrebbe anche essersi trattato di un malore, non è detto che abbia assunto metadone dal momento che non risultava tra i partecipanti attivi alla rivolta», sottolinea. «Quel che è certo è che Ferjancic era una persona in carcere da parecchio tempo senza una condanna definitiva, una persona molto fragile che per il suo profilo, e per quello di cui era accusato, non doveva stare lì». E invece in carcere ci è morto in circostanze su cui andrà fatta luce, come non si è fatto con la strage di marzo 2020.

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