- Secondo capitolo delle inchieste finanziate da lettrici e lettori di Domani sulla transizione ecologica dal basso, i suoi fermenti e gli ostacoli che incontra. Questa settimana si parla di mobilità urbana sostenibile.
- Tra tutti i settori della transizione, in nessuno come nella mobilità la spinta dei comitati e delle associazioni in questi anni è stata più efficace per ribaltare paradigmi, fare cambiamento culturale e promuovere nuove policy.
- Il problema è che si scontra con la cronica carenza di fondi e con la mancanza di interlocutori, sia tra gli eletti che tra i tecnici della pubblica amministrazione.
Se prendiamo i settori della transizione, in nessuno come nella mobilità urbana sostenibile si vede quanto la spinta dal basso, quella delle idee e degli umori, dei comitati e dei contro-comitati, possa accelerarla, nutrirla, ostacolarla. Perché mobilità vuol dire uso dello spazio della città, a favore di chi, contro chi, è una dinamica facile, comprensibile.
Ogni misura che viene presa è anche l'infografica di se stessa, a volte ci sono in gioco la vita e la morte, la salute e la malattia, su tempi più stretti della crisi climatica. La mobilità è una palestra di conflitto ecologico aperta anche a pezzi di società che il conflitto di solito non lo praticano. In Italia sono dieci anni che i comitati per una mobilità dolce e sostenibile sono strutturati nel modo in cui li conosciamo oggi, è una spinta pre-Greta che però i movimenti hanno legittimato e allargato. Elisa Gallo, attivista di lungo corso e consigliera nazionale di Federazione italiana ambiente e bicicletta (Fiab), è una memoria storica di questo percorso: «Il 2013 è stato il primo grande anno di attivazione nazionale, con il movimento salvaciclisti, un Bike Pride da 30mila persone. L'arrivo di Fridays for Future ha innescato una sensibilità diversa, ci ha dato un linguaggio condiviso». Con i movimenti per il clima, la ciclabile per una città migliore è diventata anche la ciclabile per un mondo migliore.
Ripensare la strada
L'idea della città 30 - adottata da Olbia come prima città italiana, poi da Bologna - è allo stesso tempo punto di arrivo e totem di questa elaborazione politica. Marco Mazzei, consigliere comunale a Milano, è il politico che se ne è fatto portavoce in una città che - nonostante le sue autocertificate credenziali ecologiche - è ancora un baluardo dell'automobile. È bastato un ordine del giorno del consiglio a creare il caos politico, un dibattito tutto incentrato sulla velocità quando l'obiettivo di questo modello arrivato dal basso sui tavoli delle pubbliche amministrazioni è più ampio, e andrebbe discusso nel merito. Come spiega Mazzei. «La questione velocità è solo formale, è un modo per ripensare la strada, che oggi è occupata per tre quarti da automobili private ferme. Il tema è l'equa distribuzione dello spazio urbano».
Luca Polverini è uno dei coordinatori della piattaforma città 30, che ha convogliato realtà con sensibilità diverse sotto lo stesso obiettivo, da Legambiente a Kyoto Club. «È un cambio di paradigma che non ha niente a che fare con la destra o la sinistra, l'amministrazione di Olbia è di centrodestra, e sono stati i primi a farla». A livello nazionale però è un'altra storia, la piattaforma ruota intorno a una proposta di legge che non ha nessuna speranza di essere approvata, anzi, il nuovo codice della strada rende solo la vita più difficile ai sindaci che vogliono provare a limitare la velocità. «Ma quello che conta è fare opera di sensibilizzazione, creare consenso intorno a questa idea che città più lente sono città più sicure, in cui si vive meglio».
Questione ciclabili
È un vasto programma. Secondo Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna Clean Cities, «le pubbliche amministrazioni di ogni colore tendono a essere timide, non abbiamo un caso Parigi, un amministratore col coraggio di attuare un cambiamento su larga scala». Attraverso Clean Cities Magliulo ha una visione del potenziale e degli ostacoli che incontra questa opera di cambiamento dal basso. «Innanzitutto, la mancanza cronica di finanziamenti, dispersi e senza una visione sistemica di come si vogliono le città del futuro. Il Pnrr da questo punto di vista è un'occasione mancata».
In Italia per ogni euro speso in ciclabili se ne spendono cento per infrastrutture per le auto, e la stessa Bologna-aspirante-Parigi è vittima di questa trappola, con l'infrastruttura simbolo dell'auto-centrismo contemporaneo, il passante di mezzo diventato a sua volta bersaglio numero uno dei movimenti ambientalisti italiani, quasi una nuova Tav nella città più progressista d'Italia. Senza indirizzare in modo diverso le risorse non si fa transizione sulla mobilità, un chilometro di ciclabile costa tra 250mila e 1 milione di euro a seconda del contesto.
L'altro problema è la mancanza di interlocutori amministrativi all’altezza. Simone Morgana, che ha il complesso compito di seguire questi temi per Fiab in Sicilia e a Gela, racconta che quando va in un comune per parlare di ciclabili viene indirizzato sempre all'assessore allo sport e mai quello alla mobilità. «Quante volte mi è stato chiesto: vuoi organizzare una gara di bici?». Il divario nord-sud è un altro dei temi invisibili per la mobilità sostenibile. Nel dossier Non è un paese per bici tutte le ultime città per ciclabilità sono sotto Roma, il meridione e le isole hanno un terzo dei chilometri di cicilabili dell'Emilia Romagna, a Gela ce n'è un solo chilometro. Uniche eccezioni di città del sud in transizione ecologica sulla mobilità: Lecce, dove si stanno sperimentando zone di città 30, e Bari, che ha politiche innovative sull'accesso ai trasporti pubblici. Secondo Morgana quando ci si interfaccia con un amministratore del sud, quello che si trova è «un atteggiamento di benaltrismo, nel senso che i problemi sono sempre altri, e la percezione che la bici è soltanto un attrezzo da fitness, da chiudere nella riserva sportiva». Ma il collo di bottiglia è lì, a prescindere dal punto di partenza: la mancanza di eletti che vedano il tema e abbiano voglia di affrontare i conflitti che crea e di tecnici che sappiano gestirlo nei suoi dettagli.
Torino respira
Un altro tema sul quale la spinta dal basso di cittadini e comitati sta mostrando capacità di immaginazione e di impatto è Torino: nella città più inquinata d'Italia si è creato un modello intorno alla lotta per la qualità dell'aria. L'epicentro è Torino Respira, associazione che si è mossa su tre fronti. Il primo è quello legale, con una denuncia per inquinamento ambientale e disastro ambientale che ha già portato a nove avvisi di garanzia, e una causa civile promossa dai genitori di un bambino con un grave problema di asma. Il secondo è la formazione, che va dalle scuole agli ordini professionali. Il terzo è il monitoraggio civico. A Torino ci sono cinque centraline dell'Arpa per valutare i livelli di biossido di azoto, Torino Respira ne ha fatti aggiungere duecento, dal basso, che hanno fornito l'immagine di una città in soffocamento di cui il numero chiave è 90: fuori dal 90% delle scuole si respira aria illegale. «Questo tipo di informazioni ha cambiato la narrativa in città, ha aperto gli occhi, ha reso l'inquinamento non un orpello ma un tema cruciale dell'amministrazione», spiega il presidente Roberto Mezzalama. Finora i risultati sono stati pochi (è cambiato il meccanismo dei blocchi auto, che ora si fanno anche preventivamente), la strada è lunga, ma il 12 luglio sono stati presentati monitoraggi simili, a cura della rete Cittadini per l'aria, su Roma e Milano. Il movimento civico per l'aria è un modello scalabile fatto di due elementi. Il primo è una lotta basata sui dati e affrancata dalle sole piazze, il secondo è l'uscita dall’ortodossia della bolla ambientalista, con il dialogo con realtà come Unicef o Gruppo Abele, che a Torino hanno partecipato ai monitoraggi.
Sulle scuole, e sempre dal basso, è arrivata un'altra innovazione con potenziale, quella delle strade scolastiche pedonalizzate. Effetti: riduzione dell'inquinamento, sicurezza, autonomia dei bambini, restituzione degli spazi. È in piccolo l'immagine delle città che potrebbero essere: ce ne sono trenta a Milano, sette a Roma, una a Viterbo e diverse a Lecce. Non c'è ancora un dato nazionale consolidato, perché sono iniziative dal basso e non mappate, ma ci sono 110 progetti a Roma e 80 a Milano. Come dice Magliulo, le strade senza auto davanti alle scuole sono «mitemente rivoluzionarie, basata su un'idea di spazio pubblico semplice: se la città va bene per i bambini, va bene per tutti».
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