Gli agenti hanno usato la forza. E non c’è chiarezza sul funzionamento del sistema di videosorveglianza, sulle testimonianze di alcuni agenti, sulle relazioni del personale del carcere e sulle lesioni dei detenuti.

Per questo motivo la gip Carolina Clò ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e ha disposto nuove indagini sulle torture denunciate da numerosi detenuti presenti nel carcere Sant’Anna di Modena l’8 marzo 2020 quando, durante e dopo una rivolta, sono morti nove detenuti in circostanze mai del tutto chiarite.

La strage di Modena

La vicenda è quella della peggiore strage penitenziaria italiana del Dopoguerra. L’8 marzo 2020, a causa della pandemia di Covid-19, il governo decide di sospendere i colloqui e le attività nelle carceri per limitare il contagio. In diversi istituti scoppiano violente rivolte.

Al Sant’Anna di Modena i detenuti prendono il controllo di alcuni padiglioni e danno l’assalto all’infermeria, depredando metadone. Alcuni di loro muoiono nel giro di poco, altri nelle ore e nei giorni successivi, sempre a Modena o negli istituti penitenziari dove vengono trasferiti.

Il bilancio finale è di nove morti per overdose, una strage dove, fin dall’inizio, molti elementi non tornano, tra testimonianze di ritardi e omissioni di soccorso, mancate perquisizioni delle celle a rivolta sedata, denunce di violenze per mano della polizia e fascicoli discordanti tra loro.

La procura ha chiesto l’archiviazione per quella terribile vicenda, richiesta accolta dal gip nel 2021. Ma per tutti questi anni a Modena è rimasto in piedi un altro filone di indagine, solo apparentemente scollegato: quello che riguarda 120 agenti di polizia penitenziaria, accusati da diversi detenuti di tortura.

Il giallo delle telecamere

A luglio 2023 la procura modenese, che in questi anni si è distinta per un approccio molto morbido riguardo agli abusi in divisa, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo per tortura.

Ma ora la gip Carolina Clò ha rigettato la richiesta e ha disposto nuove indagini entro un termine di sei mesi. Nell’ordinanza la giudice certifica che nelle fasi più concitate della rivolta gli agenti di polizia penitenziaria hanno fatto ricorso alla forza «per contenere condotte violente o oppositive» dei detenuti.

Un uso allo stato attuale legittimo, sottolinea, che però necessita di ulteriori indagini alla luce di alcuni elementi emersi dove non tutto è lineare. Sono quattro i filoni incerti. Il primo riguarda il sistema di videosorveglianza: se da una parte è certificato che in alcune aree dove sono state denunciate le violenze non erano installate telecamere, in altre come il campo sportivo e il passo carraio non si sa perché non vi siano state riprese.

Quello del passo carraio è un tema delicato di cui si discute da parecchio, anche perché la procura era arrivata a dire che lì non c’erano mai state telecamere. Un paradosso, dal momento che se c’è un luogo sicuramente sorvegliato in carcere è proprio quello di ingresso.

La giudice ha chiesto di sentire al riguardo la direttrice dell’epoca dell’istituto, Maria Martone. Non solo lei, nella lista dei nuovi teste c’è anche l’ex direttrice Federica Dallari, mandata via poche settimane prima della rivolta perché, secondo fonti interne, aveva un approccio troppo morbido verso i detenuti. La sua testimonianza a proposito delle telecamere potrebbe essere preziosa.

La relazione modificata

Un altro elemento sollevato dalla gip riguarda le intercettazioni. Da esse trapela che alcuni agenti sotto indagine si siano dati appuntamento nelle fasi precedenti alla convocazione in questura «per parlare della stessa e di quanto accaduto l’8 marzo». I loro racconti potrebbero dunque essere stati concordati.

Un terzo aspetto che si trova nell’ordinanza di opposizione all’archiviazione riguarda una relazione redatta a fine marzo 2020 da una vice ispettrice, dove si sottolinea che i detenuti presentano «segni fisici dovuti all’intervento della polizia penitenziaria».

Relazione che in una seconda versione, qualche settimana dopo e su specifica richiesta del carcere di Modena, parla invece di segni fisici «derivanti dalla rivolta» e non dall’azione degli agenti. E c’è anche un’intercettazione in cui la vice ispettrice confida a una persona di aver intimato ai colleghi di non alzare le mani.

Infine, l’ultimo elemento evidenziato dalla gip riguarda le lesioni effettivamente riscontrate sui detenuti. Esse «meritano ulteriore approfondimento in quanto astrattamente compatibili con le condotte denunciate» e viene chieste l’acquisizione delle cartelle cliniche di tutti i detenuti trasferiti da Modena nelle fasi della rivolta, cioè 417 persone.

No all’archiviazione

La gip ha stabilito che sulla rivolta di Modena si deve tornare a indagare, la vicenda non è ancora chiusa (a parte per 22 dei 120 agenti indagati, per cui ha disposto l’archiviazione).

«È una decisione importante, che attendevamo e per la quale ci siamo battuti per anni», sottolineano gli avvocati Luca Sebastiani, Ettore Grenci e Simona Filippi, che difendono alcuni dei detenuti e hanno portato la strage fino alla Corte europea per i diritti dell'uomo.

«La giudice ha riconosciuto che quel giorno è stata usata la forza nei confronti dei detenuti e ha ritenuto di voler approfondire se sia stata utilizzata nei limiti stabiliti dalla legge». Anche il comitato Giustizia e verità di Modena, che in questi anni ha tenuto alta l’attenzione sulla strage, è soddisfatto dell’ordinanza.

«Per noi significa non chiudere definitivamente questa pagina e cercare di ascoltare nuove voci per fare chiarezza», sottolinea Sara Manzoli. «Nonostante siano ormai passati quattro anni e mezzo non ci siamo scordati dei nove morti del Sant’Anna».

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