Come per la violenza, non è sempre scontato che una donna comprenda di essere vittima di molestie anche qualora gli atteggiamenti siano evidenti. Emerge in uno dei racconti contenuti nel libro “Senza giri di boa” edito da PaperFirst che qui proponiamo. Il testo scritto da un collettivo di giornaliste ha dato vita a uno spettacolo teatrale che porta in scena dieci storie di donne e di ordinaria discriminazione lavorativa
Luisa è una donna di 49 anni.
Le chiedo come tutto è cominciato e mi accorgo che Luisa ha rimosso la sequenza cronologica degli eventi: man mano che entra nel racconto le appaiono dei flash improvvisi, come se d'un tratto una lampadina le accendesse un momento preciso. Me la aquindi così, la sua storia: un flash dopo l'altro. Poi, ogni tanto, tira le fila e ricostruisce il puzzle.
Nel primo di questi flash, c'è P. che la chiama nella sua stanza. Succede spesso, ogni volta che lui deve assegnarle dei compiti. Appena entrata, lui le chiede di chiudersi la porta alle spalle. «Lì per lì non ci ho visto nulla di male, ho pensato volesse semplicemente un po' di riservatezza », confessa Luisa. Invece, P. la fa avvicinare alla scrivania. Le vuole fare un gioco, le dice, e le porge un mazzo di carte, invitandola a pescare una carta dal mazzo. Quando la scopre però si rende conto anziché un due di picche o un sei di bastoni, sulla carta c’è il disegno di un uomo e una donna in una posizione sessuale. No, non sono carte francesi o piacentine, quelle con cui vuole giovare P.: sono chiaramente carte erotiche, forse con le posizioni del Kamasutra.
Luisa posa la carta sulla scrivania in modo brusco e scocciato. Non vuole essere maleducata col capo, ma quel gioco non le è piaciuto per niente. Ha provato imbarazzo e fastidio. Ancor di più quando P., guardando la carta che lei ha pescato, le chiede se con il marito hanno mai provato quella posizione.
Lei esce dalla stanza, dicendo secca qualcosa di risolutivo togliermi, ma lui avrebbe potuto comunque mobbizzarmi in tranchant, del tipo: «Ma che giochi stupidi, P.». Quel primo episodio, però, lo vive come lo scherzo di un buontempone un po' goffo. (...) È convinta che sia finita lì, e invece è solo cominciata.
Da quel giorno, per due anni, finché P. non va in pensione, Luisa continua a essere perseguitata dagli "scherzi" del suo capo che, via via, si fanno sempre più pesanti.
«Una volta ero al mare, in vacanza, con mio marito e i bambini, e lui mi ha chiamata. Ha detto che mi aveva vista camminare con mio marito. Mi ha descritto dov’ero, cosa facevo, com'ero vestita. Mi si è gelato il sangue: lui era là, da qualche parte, vedeva, mentre io non lo avevo visto. Si diceva affranto, perché aveva scoperto che mio marito era giovane e quindi sicuramente "più prestante di lui"».
I flash
Un secondo flash: P. è partito, è in trasferta per lavoro e la chiama per dirle che nel bagno della stanza d'albergo ci sono due accappatoi e che, vedendoli, ha pensato a lei.
A quelle telefonate, lei risponde sempre scocciata e chiude velocemente.
Pronuncia qualche parola di disapprovazione e mette giù il telefono. Vorrebbe rispondergli a dovere, ma sente di non poterlo fare, che deve mantenere rapporti cordiali. P. è sempre il suo capo e, sebbene non sia in attesa di alcuna promozione, Luisa ha comunque paura di venire in qualche modo de mansionata. Che, se lo umiliasse troppo, lui potrebbe vendicarsi e mettere i bastoni tra le ruote in ufficio.
«Da una parte mi sentivo tranquilla, perché ero assunta a tempo indeterminato e avevo una posizione che nessuno poteva togliermi, ma lui avrebbe potuto mobbizzarmi in qualche modo. Avrebbe potuto dire alla pianificazione non servivo più e farmi spostare in un altro reparto». Le risposte di Luisa alle molestie di P. restano sempre tra tra il brusco e lo scherzoso.
La reazione
È una passività lucida la sua, di una donna che si sente forte, in grado di badare a se stessa.
Spesso, ad esempio, capita che lui le dica «Dai Luisa, siediti sulle ginocchia di P.» Lei, semplicemente, non si siede e cambia discorso. Solo una volta gli risponde a brutto muso. «Non ti devi permettere!», gli dice. Non ricorda cosa abbia fatto o detto P. in quell'occasione, solo che si è affacciato nella stanza di lei, che è al lavoro con i colleghi, e che lei gli ha dato quella risposta dura, di fronte agli altri.
A quel punto P. la convoca. «Mi hai molto deluso, Luisa, non avresti dovuto rivolgerti a me in quel modo», le comunica. Poi, decide anche di fargliela pagare.
Inizia a non chiamarla più nella sua stanza, ma smette anche di assegnarle incarichi importanti. La fa lavorare sempre meno e affida ad altre persone le consegne che spetterebbero a lei.
Luisa - lo abbiamo detto dall'inizio non è una che ha fretta di fare carriera, perciò non si picca della vendetta. Accetta senza
battere ciglio. Non vuole dargli soddisfazione. Anzi: sotto sotto, sprea che lui la faccia finita di perseguitarla, e pazienza per il lavoro demansionato.
Ma non va così, perchè lui ricomincia.
Questa volta con una mail, in cui le manda la foto di un toro
con un'evidente erezione. Luisa non ricorda le frasi che accompagnavano la foto: «Forse mi augurava il buongiorno».
A quel punto, lei non ne può più. Comincia a domandarsi se
non ci sia un modo formale, previsto dall'azienda, per venire
fuori da quell'incubo porno in ufficio.
Il responsabile
Decide di rivolgersi al suo responsabile, quello che lei consi- dera un amico. Ma la conversazione non va come previsto. «Ci rimasi malissimo, perché lui mi sconsigliò di fare qualsiasi cosa. Mi disse che tanto non avrei ottenuto nulla, che P. era “agganciatissimo”, che sarebbe sempre stata la sua parola contro la mia, perché niente era mai avvenuto di fronte a testimoni. Disse che mi conveniva avere pazienza e aspettare che P. andasse in pensione, tanto mancava poco.
Ero davvero delusa e amareggiata, perché mi aspettavo che mi avrebbe aiutata e difesa. Invece niente».
Nonostante si senta mortificata, Luisa fa come l'amico le consiglia e aspetta, paziente, che P. vada in pensione.
Sono due anni duri, in cui, spesso, la mattina le manca la voglia di andare a lavorare. Si confida con il marito, che sa tutto dall'inizio, ma anche lui è impotente in quella situazione.
«La sensazione più forte che ricordo è la rabbia che avevo per non potergli dire "Vaffanculo", come avrei fatto con un qualsiasi collega. Perché era il mio direttore. Ma non avevo coscienza fino in fondo di essere stata molestata, di avere diritto di ribellarmi.
Sono sicura che oggi sarebbe diverso. Oggi si denuncia di più, si sente più spesso parlare di donne che denunciano e non accettano comportamenti del genere nei luoghi di lavoro. Ma dieci anni fa non era così. Sapevo che non era giusto quello che faceva P., ma non riuscivo a dare un nome a ciò che stavo vivendo.
Sola
Mi sentivo sola. Probabilmente quello che ha fatto con me lui l'ha fatto anche con altre, anche perché proveniva da un reparto diverso, dove ci sono tante donne precarie e magari anche più disposte a “cedere”.
lo ero una dipendente e quindi mi sentivo tutelata. Chissà. Forse se fossi andata all'ufficio del personale a denunciarlo sarebbe uscito fuori dell'altro, magari avrei scoperto che già aveva avuto altre denunce. Invece non ho fatto niente. Ho solo aspettato che se ne andasse.
Una cosa, però, ho imparato a farla: quando mi chiamava nella sua stanza per comunicarmi qualcosa – perché doveva comunque relazionarsi con me - e mi chiedeva di chiudere la porta dicevo: “No, la porta la lascio aperta”. Per il resto, non ho avuto la forza di fare altro».
Per quei due anni, tra P. e Luisa non c'è mai stato contatto fisico, ma lei oggi non ha dubbi: P. l'ha molestata per due anni. «Molestia, per me, è tutto quello che non è paritario, perché non puoi rispondere come vorresti».
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