Nei prossimi settant'anni l'Italia potrebbe perdere ben 9 milioni di abitanti: stando alle proiezioni, è il paese europeo che subirà il calo demografico più rilevante. Rischiamo di entrare in un circolo vizioso: meno figli si fanno oggi, meno se faranno domani. E le possibili soluzioni – incentivare le nascite, aumentare le quote di immigrati – sono lungi dal mettere tutti d'accordo
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In Italia vivono oggi 59 milioni di persone. Ma secondo l'Eurostat , l'ufficio statistico dell'Ue, tra settant'anni potrebbe essere solo 50: l'Italia è la nazione europea che in questo secolo subirà il calo demografico più rilevante. In ogni Paese il rinnovo della popolazione può avvenire nei due modi. Il principale è rappresentato dai bambini che nascono. Per mantenere nel tempo lo stesso numero di abitanti, al netto di guerra ed epidemia, si dovrebbe avere un tasso di fecondità – cioè di numero di figli per donna – pari a 2,1 (il decimale va ad ammortizzare la percentuale, per fortuna ormai molto piccola, della mortalità neonatale o infantile). Per ogni due genitori che presto o tardi muoiono, ci sono due figli a sostituirli: per questo viene chiamato anche “tasso di sostituzione”.
L'altro modo perché la popolazione non diminuisca è accogliere stranieri che vadano a sostituire i nuovi nati mancati nel numero totale dei residenti. Per questo, spesso il dibattito sulla natalità si intreccia a quello sull'immigrazione, talvolta con derive populiste – come il rischio di “arrendersi alla sostituzione etnica” paventato dal ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida, esponente di Fratelli d'Italia.
A ben vedere, l'apporto degli immigrati – che una volta in Italia, a loro volta spesso fanno figli – è stato negli anni importante per non far calare troppo le nascite: ancor oggi il tasso di fecondità delle “autoctone”, le donne con cittadinanza italiana, è 1,18 – ben più basso di quello delle donne di altra nazionalità residenti in Italia. Ma la narrazione delle famiglie straniere numerose è ormai obsoleta: basti pensare che in soli tredici anni, dal 2008 al 2021, la fecondità delle donne immigrate da 2,53 è piombata a 1,87.
Le politiche nataliste
La questione è spesso affrontata dalla prospettiva natalista, un’ideologia che calca la mano sul fatto che si “dovrebbero” fare più figli, spesso insistendo su quello che Alessandra Minello , docente di Demografia all'università di Padova, nel suo saggio Non è un Paese per madri (Laterza 2022) chiama “il mito della maternità”, dipinta come realizzazione e istinto naturale delle donne. Non tutti i nuovi nati però contano allo stesso modo: l'intento del natalismo è quello di far nascere sopratutto bambini “autoctoni”.
Rispetto al problema della denatalità un'altra prospettiva sempre più diffusa, spesso supportata da argomentazioni ecologiste, è quella che invece minimizza. Fare meno figli non sarebbe poi così drammatico: siamo già in tanti sul pianeta! Se la popolazione si riduce, si riduce l'inquinamento e il consumo di risorse, e questo è un bene. Ignorando però la sofferenza di chi vorrebbe figli e non può, o non riesce, ad averne; e le conseguenze che il calo demografico ha sui singoli territori.
«Al tasso di sostituzione noi in Italia non ci avviciniamo più da decenni» dice Alessandra Minello, e non siamo purtroppo gli unici: solo la Francia, in Europa, ha un numero di figli per donna che quasi raggiunge i 2. In Italia la media oggi è 1,24. Al di là delle scelte individuali, «veniamo da decenni di bassa fecondità e quindi abbiamo coorti più ristrette di donne nella fase di fertilità». La nostra società è sempre meno giovane anche per effetto di una «doppia spinta: da una parte il calo della fecondità, dall'altra l'allargarsi della popolazione anziana». Col risultato che, «per assurdo, su settori come l'istruzione e la cura dell'infanzia vengono fatti meno investimenti, perché numericamente risultano meno importanti».
Spesso la discussione sulle culle vuote viene associata a quella sulle pensioni. Una scelta «poco efficace» secondo Minello: «Difficilmente si convincerà una generazione ad avere figli per pagare le pensioni agli anziani». E nemmeno il ragionamento “minimizzante” la persuade: «Dire “siccome in alcuni paesi nascono troppi figli, io non mi responsabilizzo nel mettere chi qui ha desiderio di figli nelle condizioni di averli” non mi pare sensato». Meglio concentrarsi «sulla questione della libera scelta e dell'appagamento del desiderio: chi vuole figli va messo in condizione, almeno potenzialmente, di averne».
Ecco dunque la terza prospettiva: quella che parte dal desiderio individuale. La domanda allora è: questi pochi figli che facciamo, sono in effetti tutti quelli che vogliamo fare? No: in tutto il mondo industrializzato il “fertility gap” – il divario tra figli desiderati e figli avuti – è in crescita. In Italia per esempio ne vorremmo due, e arriviamo a stento a uno e un quarto.
Il caso della Sardegna
E c'è una Regione dove non si arriva nemmeno a uno: in Sardegna la media è 0,99 figli per donna. L'isola «ha conosciuto uno straordinario spopolamento della sua parte centrale» spiega Gianfranco Bottazzi, ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all'università di Cagliari, con un conseguente invecchiamento della popolazione, che «ha come primo effetto l'abbassamento del tasso di natalità».
Il fatto che la Sardegna sia in difficoltà dal punto di vista economico non è, secondo il docente, un tema così centrale: secondo lui si rinuncia ai figli non tanto per mancanza di soldi ma perché «si è diffuso un male dell'anima. Il rifiuto della responsabilità, la paura per il futuro sono problemi diffusi ovunque, ma qui hanno avuto effetti particolari perché il punto di partenza era già difficile».
Bottazzi evidenzia due altri «primati che fanno riflettere»: la Sardegna è la regione «che ha il più alto tasso di suicidi e il più alto tasso di assunzione pro capite di benzodiazepine, cioè di psicofarmaci». Insomma, non basta la «propaganda» del mare bello, l'aria pulita e «i centenari» (che peraltro sono anche un po' una leggenda perché «sì, ci sarà qualche centenario in più, ma la vita media della Sardegna è più bassa di quella della Lombardia»): la società sarda «è caratterizzata da una sofferenza che spesso non viene presa in considerazione». Mentre per scegliere di fare figli servono «serenità e speranza nel futuro».
Sempre meno bambini
Negli ultimi cinque anni la Sardegna ha perso 50mila abitanti: i residenti sono passati da 1 milione 622mila a 1 milione 575mila. Un po' per l'emigrazione, ma soprattutto per il calo delle nascite. «Nel nostro Policlinico Duilio Casula all'inizio degli anni Novanta nascevano 2.400 bambini all'anno: adesso il numero è dimezzato» conferma Stefano Angioni, che dirige il reparto di Ostetricia e Ginecologia : «Da 15mila nuovi nati all'anno, adesso in Sardegna siamo scesi a 8mila».
Le donne sarde, che hanno una storia consolidata di autodeterminazione nelle scelte riproduttive – sia Angioni sia Minello citano la diffusione precoce e capillare della contraccezione –, arrivano oggi alla maternità molto tardi: l'età media al primo figlio sfiora i 33 anni, sei mesi in più della già alta media italiana. «Vent'anni fa sembrava strano seguire donne di quarant'anni al primo figlio, adesso è la norma», dice Angioni. Tanto che anche la definizione medica di “primipara attempata” è cambiata, e oggi indica le donne che diventano madri «dai trentotto anni in su».
«La ricerca tardiva della gravidanza è legata a fattori sociali, alla mancanza del lavoro, al dover realizzare una serie di progetti di vita prima» dice il ginecologo. Il fattore principale della denatalità, in Sardegna come altrove, «è proprio l'età materna che si è spostata troppo in avanti, nel momento in cui la fertilità femminile diminuisce. E i bambini, che sono sempre meno, diventano sempre più preziosi. L'ansia di avere quell'unico figlio – di averlo, innanzitutto, e poi di averlo sano – porta le donne a vivere questo momento con più attenzione ma anche con più preoccupazione».
«Quando una popolazione va sotto un certo numero di riproduzioni per coppia», conclude Stefano Angioni, il trend diventa «irreversibile, e quella popolazione è destinata all'estinzione». La prospettiva è ancora lontana: ma non si può dire che demografi, sociologi e medici non abbiano lanciato l'allarme.
Adesso è il tempo della politica. Perché le persone che desiderano i figli ci sono, già adesso, in Italia, senza bisogno di “convincere” né forzare la mano a nessuno. Basterebbe lavorare per creare le condizioni perché avere un figlio non sia percepito come un'impresa insormontabile, e spianare la strada agli aspiranti genitori, invece di sbarrargliela.
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