La premier Giorgia Meloni dice di aver scelto di fare politica dopo l’uccisione del giudice. Sulla bomba solo mezze verità. Intanto Fratelli d’Italia è criticata dalla Agende Rosse
Il 19 Luglio del 1992, nel pomeriggio di sangue e strazio di Via Mariano D’Amelio, a Palermo, intorno ai resti del giudice Paolo Borsellino (procuratore aggiunto di Palermo, 52 anni) e degli agenti della sua scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina) accadevano cose. Tra queste, una, fondamentale: aveva inizio il più grande depistaggio della storia d’Italia. Ed un’altra cosa, all’apparenza minore: una quindicenne romana, di nome Giorgia, decideva, davanti alle immagini che, nel mondo, raccontavano l’orrore con titoli come “Palermo come Beirut”, di impegnarsi in politica.
Trentadue anni dopo anni dopo, Giorgia Meloni è presidente del Consiglio dei Ministri. È lei, ogni anno, a ricordare questo aneddoto sul motivo del suo impegno. Ed il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio continua: false piste, processi falsati azzerati, nuove indagini alla ricerca di una verità sempre più lontana e confusa.
Dalle parti di Fratelli d’Italia hanno una sorta di venerazione per Borsellino, che la vulgata voleva di simpatie missine. Tanto che, durante le votazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, in Parlamento, il gruppo di Msi lo aveva anche simbolicamente votato. Era il 19 Maggio del 1992 (quattro giorni prima della strage di Capaci, e due mesi esatti da Via D’Amelio). In quello scrutinio, l’undicesimo, Borsellino ottenne 47 preferenze.
«Abbiamo il dovere di ispirarci a lui», dice Sara Kelany, parlamentare di Fdi protagonista di “Parlate di mafia” l’iniziativa che, da tre anni, il suo partito dedica in Sicilia a Borsellino “per rendere concreto il suo coraggio”. Per il partito della premier ciò significa essenzialmente due cose: «Replicare il modello “Caivano” contro il degrado nei territori, e lottare l’immigrazione irregolare». Per Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di Fdi, «la lotta alla mafia è la nostra ragione di vita».
Ma non è né Catania, dove si è tenuta la due giorni di Fratelli d’Italia, né Palermo, dove oggi ci sarà l’annuale pellegrinaggio nel luogo della strage, con il suo carico di colpi di calore e divisioni, il luogo dove bisognerebbe andare per capire meglio cosa sia accaduto in Italia in questi trent’anni e passa. È Caltanissetta.
Lì ci sono tanti, troppi fascicoli aperti sulla strage. Dai verbali di collaboratori di giustizia veri e tarocchi, fino alle sentenze dei ben quattro procedimenti per accertare la verità su quanto accaduto in quel terribile 1992. In una vicenda che sembra un labirinto senza uscita, negli anni, sono finiti coinvolti in tanti, ed in tanti hanno tradito, nascosto, sviato. Tra i nomi ad essere annotati nei fascicoli della procura di Caltanissetta ci sono quelli dell’ex procuratore Pietro Giammanco e Arnaldo La Barbera, entrambi deceduti.
I soliti sospetti
La Barbera è colui che avrebbe indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino, 27 anni nel 1992, piccolo delinquente della borgata Guadagna, a dare una ricostruzione dei preparativi della strage totalmente falsa accusando mafiosi che però con l'autobomba di via d'Amelio non c'entravano nulla. Tutto poi sarà sconfessato, dopo ben 17 anni, dalle rivelazioni di un altro pentito, Gaspare Spatuzza.
Adesso i fari sono su Gioacchino Natoli, e il generale della Finanza Stefano Screpanti, che avrebbero “insabbiato” l’indagine su mafia e appalti, quella che per alcuni familiari di Borsellino potrebbe essere la chiave per scoprire chi isolò il magistrato fino alla sua morte annunciata e che per altri è invece uno dei tanti “feticci” che si agitano in questi anni da parte delle tante fazioni in campo che ci devono “spiegare” le stragi.
E poi c’è la pista nera, sul coinvolgimento di esponenti della destra eversiva. E poi ancora c’è il nuovo processo su quattro agenti della Mobile di Palermo accusati di false dichiarazioni. Uno di loro, ascoltato come testimone, ha risposto per ben 121 volte, in aula: «Non ricordo». E poi c’è il processo sul depistaggio, che ha coinvolto tre poliziotti (per loro, in appello, «non luogo a procedere per intervenuta prescrizione»). E poi, e poi e poi. E poi c’è il killer catanese Maurizio Avola che sulle fasi che hanno preceduto la strage ha raccontato ben otto versioni diverse.
Di anno in anno si procede per aggiornamenti, annotazioni ed integrazioni. L’ultima novità riguarda proprio il processo a carico dei quattro agenti della Mobile accusati di falso. Alla prima udienza i familiari di Borsellino hanno chiesto la citazione come responsabile civile del Ministro dell’Interno, e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lì dove siede Giorgia Meloni, la quindicenne che cominciò ad interessarsi di politica sconvolta dall’orrore di Via D’Amelio.
«La leader di una maggioranza che vuole intitolare un aeroporto a Silvio Berlusconi, che limita le intercettazioni e abolisce il reato d’abuso d’ufficio, che mette il bavaglio alla stampa, non ha il diritto di pronunciare il nome di Paolo Borsellino», dicono dal movimento delle Agende Rosse, alla vigilia della fiaccolata sul luogo della strage, giunta alla sua 28° edizione. Il corteo, quest’anno, sarà aperto da uno striscione con una frase di Borsellino: «Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
A Palermo in questi anni anche la piccola Via D’Amelio è profondamente cambiata. Sono spuntate le strisce blu, come nelle vie che contano. Ha aperto un bar. Di alcuni palazzi sono state rifatte le facciate ed i prospetti. Ha aperto anche un “Escape Room”, uno dei locali più di successo degli ultimi anni. È un posto in cui si va per un gioco molto di moda: rinchiusi in una stanza con la propria squadra, i partecipanti cercano gli indizi e le chiavi per i diversi lucchetti per scappare, appunto, prima che scada il tempo. Gli unici a poter uscire dal labirinto di Via D’Amelio, in pratica, sono loro.
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