Emanuel 33 anni era stato arrestato in un’operazione anti droga il 4 dicembre. Secondo la compagna è stato colpito durante il fermo. Ipotesi seguita anche dai legali della famiglia. Il giallo del pronto soccorso dove si ferma solo pochi minuti e delle registrazioni mancanti in caserma
- Scalabrin è stato arrestato il 4 dicembre scorso. Muore durante la detenzione in cella di sicurezza nella caserma di Albenga, provincia di Savona, dove era stato condotto dai carabinieri dopo il fermo: in casa gli hanno trovato droga e anche un fucile.
- La anomalie in questa storia iniziano fin dal blitz a casa di Scalabrin e della compagna.
- Un’altro sospetto chiama in causa direttamente i carabinieri, che avrebbero dichiarato nei loro rapporti di aver monitorato il detenuto attraverso le telecamere di sorveglianza. Telecamere però che non hanno registrato.
Qualcosa non quadra nella morte di Emanuel Scalabrin avvenuta in una caserma dello stato italiano, più precisamente nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga, provincia di Savona. Non è del tutto chiaro per esempio il perché le telecamere interne alla cella fossero fuori uso. Stranamente non hanno registrato, non erano predisposte alla registrazione, come dimostra un documento ottenuto da Domani. Se ci fossero le immagini di quella sera molti interrogativi avrebbero già trovato risposta. Senza quei nastri una fitta nebbia avvolge il caso Scalabrin.
Il ragazzo aveva 33 anni. È stato arrestato nella notte tra il 4 dicembre scorso. È morto la notte tra il 4 e il 5 dicembre, durante la detenzione in cella di sicurezza nella caserma di Albenga, dove era stato condotto dai carabinieri dopo il fermo: in casa gli hanno trovato droga e anche un fucile. «O il decesso è avvenuto forse al mattino del 5 dicembre, utilizziamo il forse perché, in questa terribile vicenda, non si è neppure in grado di conoscere il momento in cui è avvenuta la sua morte», dicono gli avvocati Giovanni Sanna e Lucrezia Novaro dello studio Branca di Savona che seguono la famiglia del ragazzo nell’indagine aperta dalla procura di Savona sul decesso di Scalabrin.
La anomalie in questa storia iniziano fin dal blitz a casa di Scalabrin e della compagna. All’ora di pranzo del 4 dicembre fanno irruzione i militari. La donna riferisce di abusi e agenti maneschi, al contrario i carabinieri sostengono che Scalabrin abbia opposto resistenza e quindi si sono regolati di conseguenza. Secondo la compagna, Emanuel è stato spintonato da alcuni agenti in borghese appostati per l’irruzione, trascinato fino alla camera da letto e poi gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso.
«Quando entrano in camera da letto viene gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità», dicono gli avvocati, che aggiungono:«Emanuel urla e chiede aiuto, è molto pallido, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi: secondo la comunicazione della notizia di reato al magistrato, questa fase di contenimento del ragazzo sul materasso sarebbe durata ben 30 minuti. A un certo punto forse per la paura o forse per un malessere, la compagna si accorge che Emanuel ha defecato e chiede agli agenti di farlo cambiare».
Solo 5 minuti in ospedale
Emanuel sarà successivamente tradotto nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga, dove verso sera sarà chiamata la guardia medica perché non si sentiva bene.
«Dopo una visita di un’ora, la guardia medica avendo verificato che aveva la pressione alta, frequenza cardiaca 107, e tachicardia chiede ai carabinieri che egli venga trasferito al pronto soccorso di Pietra per accertamenti sulle condizioni cliniche. Qui la visita, se così si può dire, dura 5 minuti, compreso il tempo di compilare la cartella clinica del paziente», aggiungono i legali.
Rientrato in Caserma viene nuovamente ristretto in cella e solamente alle 11 del mattino successivo i militari si accorgono che non respira. «Anche la mancata visita presso l’ospedale di un soggetto che la guardia medica ha appositamente inviato per accertamenti non ha alcuna spiegazione», fanno notare gli avvocati, che proseguono: «Inoltre nel rapporto di servizio si afferma che non è stato possibile stabilire il momento della morte, ma ciò appare quanto meno incredibile, posto che ogni cella di sicurezza è dotata di videocamera al fine di poter visionare lo stato personale e di salute dei detenuti. Non si comprende come gli agenti abbiano omesso di visionare lo stato della persona ristretta nella cella, e, soprattutto, come abbiamo potuto non accorgersi del suo malessere e ciò fino alle ore 11 del mattino dopo».
A telecamere spente
L’assenza di telecamere è l’indizio di qualcosa che è andato storto quella sera e chiama in causa direttamente i carabinieri. I militari presenti avrebbero dichiarato nei loro rapporti di aver monitorato il detenuto attraverso le telecamere di sorveglianza. Telecamere però che non hanno registrato. Lo conferma un documento letto da Domani in cui un tecnico il 5 dicembre certifica: «All’interno del Dvr manca l’hard disk e quindi non è possibile effettuare la registrazione». Il dvr è il dispositivo di videosorveglianza esaminato dalla ditta che lo aveva istallato e destinato al monitoraggio della camera di sicurezza, la cella della caserma.
Una grave mancanza, che renderà più difficile ricostruire la verità attorno alla morte di Scalabrin. Nessun mistero per la procura e carabinieri, «Il magistrato, alla luce delle analisi che hanno escluso lesioni interne, ecchimosi e fratture, ha quindi disposto l’esame tossicologico», si legge in rassicuranti bollettini nei quotidiani locali. Versione che la famiglia rigetta e non solo lei, anche gli avvocati sostengono che sul corpo di Emanuele sono presenti segni compatibili con abusi subiti. Quando sono stati fatti? Dove? A queste domande cercheranno di rispondere i legali ingaggiati dalla famiglia del ragazzo deceduto in un luogo delle istituzioni, la caserma di Albenga, che stanno seguendo l’inchiesta aperta dalla procura di Savona sul decesso del ragazzo.
«Verità per Emanuel»
Intanto la comunità di San Benedetto al porto di Genova, fondata dal prete di strada Don Gallo e ora diretta da Domenico Chionetti, ha chiesto verità sulla morte di Scalabrin.
«Tra il 4 e il 5 dicembre, o forse al mattino del 5 dicembre, è deceduto in ragazzo di 33 anni, Emanuel Scalabrin, in una cella di sicurezza della Caserma dei carabinieri di Albenga. Forse, perché in questa terribile vicenda non si è neppure in grado di conoscere il momento in cui è avvenuta la sua morte...Emanuel aveva problemi di dipendenza, storie di sofferenza e carcere che troppo spesso condannano le esistenze delle persone, portano a morti sommerse, in circostanze dove l’abuso della forza, la solitudine e il disagio prevalgono su ogni più elementare diritto. Molti i particolari della vicenda che lasciano dubbi ai suoi familiari ed aggiungono un carico di dolore ancora maggiore... Per questo motivo abbiamo chiesto che venga sottoposta un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese».
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