Più controlli, frontiere rigide e polizia. La ricetta del Viminale per fermare chi attraversa le Alpi di notte. Ad aiutarli una rete di cittadini, parroci e associazioni che li accoglie e denuncia gli abusi degli agenti
- «Non crediamo che ci sia una correlazione tra l’immigrazione e il terrorismo. Alle frontiere tra Italia e Francia non esiste nessun problema di sicurezza. Lo dimostra il fatto che tra gli attentatori arrestati degli ultimi anni, ventidue erano di nazionalità francese, mentre otto erano stranieri», lo ha ribadito il ministro degli Interni francese, Gerald Darmanin, incontrando il 6 novembre a Roma la sua omologa italiana, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese.
- «La polizia francese si comporta a Claviere come Matteo Salvini quando parla di Lampedusa, nel senso che si criminalizza la solidarietà, si fanno i proclami, ma la realtà è che la migrazione è un processo che non si può fermare», dice a Domani Davide Rostan, pastore della chiesa valdese di Susa.
- «Dall’estate a oggi il numero di migranti ha continuato a crescere», dice Pietro Gorza di Medici per i Diritti Umani, lanciando l’allarme che «con l’approssimarsi dell’inverno, la nuova composizione dei flussi, perlopiù provenienti dai Balcani, composta da famiglie numerose con donne anche gravide e bambini, rende urgente un intervento nel campo dei diritti umani e della salute».
Il 6 novembre a Roma la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha annunciato «l’intensificazione dei controlli di polizia alle frontiere attraverso la sperimentazione di brigate miste, un progetto che durerà sei mesi e a cui stavamo lavorando da tempo». E poi ha aggiunto: «A tale scopo apriremo a breve un nuovo posto di polizia a Bardonecchia, da questo punto di vista c’è tra Italia e Francia una grande collaborazione, ma serve una maggiore cooperazione degli stati africani per bloccare le partenze all’origine».
Ma c’è un’altra storia. È quella che raccontano le testimonianze raccolte tra chi il viaggio lo compie con le proprie gambe e tra le associazioni, i volontari e i cittadini che offrono assistenza al confine italo-francese da tre anni. Un pasto caldo, un sostegno legale, un rifugio. Reti di solidarietà che raccontano un altro tipo di cooperazione, un’altra narrazione che parte dalla solidarietà verso i migranti che si mettono in viaggio attraverso i valichi alpini per raggiungere la Francia.
Il pastore protestante
«La polizia francese si comporta a Claviere come Matteo Salvini quando parla di Lampedusa, nel senso che si criminalizza la solidarietà, si fanno i proclami, ma la realtà è che la migrazione è un processo che non si può fermare», dice Davide Rostan, pastore della chiesa valdese di Susa, nella’omonima valle alpina in provincia di Torino. «Negli ultimi 3 anni circa 12mila persone, anche per qualche ora, hanno condiviso con noi la propria storia. Abbiamo spiegato loro in tutti i modi, con le parole e con i gesti, come evitare di finire sotto una slavina». Rostan non si sente eroe o paladino, «sono semplicemente uno tra le centinaia di persone che su queste valli di confine hanno deciso che non si può lasciare che un essere umano muoia al freddo solo perché l’Europa li considera clandestini». Il pastore racconta di migliaia di chilometri fatti sulle strade innevate tra Susa, Oulx, Bardonecchia e Claviere, «riunioni fiume, durante le quali abbiamo organizzato la raccolta degli indumenti e delle scarpe, abbiamo messo a disposizione thermos di tè bollenti offerti alla stazione di Bardonecchia».
Solitudine e precarietà, una condizione che diventà ancor più evidente nei minori che si mettono in viaggio ora che le temperature iniziano a scendere sotto lo zero. «Centinaia di ragazzini non accompagnati che negli ultimi tre anni sono stati rincorsi, fermati, a volte pure picchiati, infine respinti e rimandati in Italia dalla polizia di frontiera, al Monginevro», dice Rostan, che aggiunge: «È accaduto, in alcuni casi, che la gendarmeria falsificasse i loro documenti per farli risultare maggiorenni, e pure che ad alcuni sottraessero persino i soldi, sotto la minaccia di rispedirli in Mali».
Su quest’ultima vicenda riferita da Rostan c’è una sentenza del 30 luglio scorso del tribunale francese di Gap che ha condannato alcuni agenti della polizia di frontiera francese per i reati di appropriazione indebita, falso e violenza. Un abuso come altri riportato anche nel «rapporto sulla situazione umanitaria dei migranti in transito lungo la frontiera nord-ovest tra Italia e Francia», redatto da Medici per i diritti umani (Medu).
Fate presto
Piero Gorza è un professore di antropologia, responsabile di Medu per il Piemonte, è lui l’estensore del rapporto. È di Oulx: i pericoli di quelle montagne li conosce, e anche i flussi migratori, perché quelle persone in fuga le incontra quasi ogni giorno. «Dall’estate a oggi il numero di migranti è cresciuto», dice Gorza, «con l’approssimarsi dell’inverno, dai Balcani arriverà un flusso composto da famiglie numerose con donne anche in gravidanza e bambini». Per questo, denuncia, «urge un presidio medico, che sia accessibile ai migranti con una sezione ginecologica, aperto 24 ore su 24, mi appello a tutti, associazioni, volontari e istituzioni, perché occorre evitare quelle tragedie che l’attraversamento delle Alpi rende assai probabili».
Dal 2018 a oggi sono morte quattro persone di ipotermia, mentre tentavano l’attraversamento del confine. Senza contare i dispersi. Tra le vittime di questi ultimi anni c’era Blessing Mathew, nigeriana di vent’anni caduta in un fiume mentre cercava di sfuggire alla polizia di frontiera. «Si vedono sempre più spesso in viaggio madri di famiglia con numerosi bambini» dice Gorza, «alcuni nati addirittura durante il viaggio». Soltanto tra luglio e agosto hanno soggiornato temporaneamente a Oulx 130 tra bambini e adolescenti e 45 famiglie. «La maggior parte arriva dalla rotta balcanica», aggiunge Gorza. Sono afghani, iraniani, pakistani. Hanno subito le vessazioni della polizia croata, come hanno riferito gli osservatori di Amnesty International. Hanno attraversato il percorso sfiancante che prevede diverse settimane di cammino che li ha condotti dalla Bosnia all’Italia.
La migrazione non si ferma
È il viaggio infinito, come quello raccontato da una famiglia curdo-iraniana. «Siamo partiti due anni fa in quattro persone», dice Anastaziya (il nome è di fantasia). Abbiamo speso circa 3mila euro a testa per andare in Serbia. Ci siamo rimasti per un anno, alloggiati in un campo con altre centinaia di persone. I nostri problemi sono cominciati quando abbiamo deciso di andare in Bosnia e anche qui abbiamo pagato. Abbiamo attraversato l’acqua fredda e alta del fiume sotto la pioggia, ma la situazione più brutta l’abbiamo vissuta in Croazia, dove i bambini avevano freddo, piangevano e siamo rimasti nascosti nel bosco per 13 giorni. Da lì siamo riusciti a passare verso la Slovenia e con un po’ di fortuna ad arrivare in Italia. Se saranno sufficienti i soldi vogliamo andare in Germania». È il viaggio che non si ferma, né con la neve, né con i proclami, né con la violenza.
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