Sembrano così diversi eppure si somigliano. Anche se si lanciano vicendevolmente accuse infamanti, anche se si detestano. Ma lo specchio, di loro due riflette una sola immagine: l’eccesso della Sicilia dopo le stragi, la Sicilia che ha cannibalizzato sé stessa nella lotta del bene contro il male.

Egocentrici e intolleranti, il mondo sono loro o ruota intorno a loro, la superbia borghese dell’una e la grossolanità paesana dell’altro non devono trarre in inganno, sono fatti della stessa pasta.

La prima che gestisce i beni confiscati come affare di famiglia e il secondo che con un pezzo di famiglia manda avanti la sua televisione, mariti e mogli e figli tutti insieme nell’abbraccio in nome dell’antimafia. Ciascuna ha la propria e non è mai quella degli altri.

La stessa lingua

Il giornalista Pino Maniaci e la giudice Silvana Saguto – il primo telepredicatore di Telejato assolto dall’accusa di estorsione e la seconda ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo condannata a otto anni e sei mesi e radiata dalla magistratura – sono nemici che parlano la stessa lingua, sono due “G” maiuscole, la Giudice e il Giornalista.

Perché Saguto è la più brava, la più temeraria, la più severa, quella che risponde a brutto muso persino a Totò Riina la prima volta che si presenta in aula dopo venticinque anni di latitanza (con il presidente della Corte Giuseppe Nobile che le stringe il braccio per invitarla alla prudenza), fino a quando è nominata a capo dell’azienda più ricca che c’è mai stata da Roma in giù: i patrimoni strappati alla mafia. «Quando sono diventata presidente ho aumentato del 400 per cento le misure di prevenzione». Immancabilmente prima.

Riveriti e acclamati

Pino Maniaci è il cronista che ha le palle che altri non hanno e tutto può («questi stronzi devono fare quello che dico io, tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci, ti faccio assumere ovunque», dice all’amica che vuole per forza piazzare negli uffici del comune) perché Pino fa tremare tutti con la sua televisione. Coraggiosamente solo.

Non si nascondono mai, al contrario si esibiscono. Sono “combattenti” di una guerra santa che può spingersi ancghe oltre confini che ai più sono preclusi perché loro sono gli “eroi”, i simboli, riveriti o acclamati, la Giudice definita unanimemente dai suoi colleghi «uno degli incrollabili punti di riferimento per l’azione giudiziaria riguardante la criminalità – specie mafiosa – del distretto di Corte di appello di Palermo», il Giornalista idolatrato ad ogni post dal popolo antimafioso tutte le volte che apre bocca e spara un «pezzo di merda» rivolto a qualche boss.

Nel giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Matteo Messina Denaro, che lui chiama «soldino pezzo di merda», è il delirio. Dopo avere seguito le sei puntate su Netflix dedicate a questo spaccato siciliano di antimafia fatta in casa (la docuserie s’intitola Vendetta, sei episodi firmati da Ruggero Di Maggio e Davide Gambino) siamo sprofondati in depressione per quello che abbiamo visto e sentito.

Sapevamo già molto ma non abbastanza. Non è mai abbastanza davanti a Pino Maniaci e a Silvana Saguto che si fanno scudo della loro «lotta» e della loro «giustizia» per motivare scorribande o condotte riprovevoli, maneggiare con disinvoltura denaro pubblico o spaventare, confiscare o sputtanare, con un solo colpo di penna mandare sul lastrico un imprenditore o con un video di pochi minuti mettere alla gogna un sindaco o un assessore.

Non siamo qui a commentare esiti di indagini e di processi, siamo qui a tracciare due profili che alla fine confondono e si confondono. Loro si presentano così. Dice il primo: «Ogni volta che io metto in moto la macchina chiudo gli occhi, non si sa mai se può saltare in aria». Dice la seconda: «Io sono un giudice, se non avessi avuto la scorta sarei morta sicuramente, una pallottola non costa niente a un mafioso».

Soli contro tutti

Ancora una volta eroi scampati per un soffio al martirio, ancora una volta le parole dell’uno che sono le stesse parole dell’altra. Davanti alle telecamere non sembrano testimoni ma attori. Si mettono in posa, sfoderano il migliore repertorio. Lei: «Io facevo sequestri miliardari, mi-liar-da-ri..io..». Lui: «Se mi dovete fermare avete due opzioni: o arrestarmi o spararmi».

C’è sempre un “io” di troppo. Soli contro tutti. È la dannazione di un’antimafia che si è divorata l’antimafia, chissà in quale momento si è perduta fra i salotti della buona società palermitana dove la Saguto era una “zarina” e le strade polverose intorno a Partinico battute da quel picaresco personaggio che è Maniaci.

Piegati ossessivamente su loro stessi, si scambiano complimenti da taverna. Lui: «Ladri, manciatari, è la mafia dell’antimafia che si continua ad arricchire». Lei: «Finirà, finirà, Baffone ha le ore contate».

Pino Maniaci usa quell’espressione impropria che solo un pensiero rozzo può sguainare, mafia dell’antimafia, come se mafia e antimafia si potessero mischiare. Ma è facile, uno slogan perfetto.

Silvana Saguto, sicuramente avvisata da qualche soffiata al palazzo di Giustizia di Palermo, comunica al telefono a un suo interlocutore che è in arrivo per Maniaci (Baffone) un provvedimento giudiziario che lo metterà fuorigioco per sempre. Risentimenti reciproci, livori, ciascuno che taccia l’altro di mafiosità. È abitudine antica in Sicilia, dare del mafioso, o amico dei mafiosi, all’avversario di turno.

Schermo e realtà

Mandante dei propri guai sempre la mafia. Per Pino Maniaci attraverso gli amici della Saguto, di fatto i magistrati della procura di Palermo e i carabinieri che lo incastrano con un video fasullo: «Chi si mette contro i poteri forti la piglia sempre in culo».

Per la Saguto attraverso gli amici di Maniaci, i boss ai quali lei ha sequestrato o confiscato i patrimoni e che consumano la vendetta. Anche le difese sono una fotocopia. «Davo troppo fastidio...». «Ho toccato determinati interessi». Vittime, vittime di qualcosa di inafferrabile. Poi però scendono tutti e due sulla terra e individuano un nemico in carne e ossa o quasi. Due procure della Repubblica.

L’ex giudice si sente stritolata da «un processo mediatico fomentato dalla procura di Caltanissetta», per Maniaci l’inchiesta che l’ha coinvolto «è una ritorsione» (l’indagine è della procura di Palermo) per la sua campagna sui beni mafiosi contro la presidente.

A dar retta a loro ne verrebbe fuori uno scenario con una moltitudine di magistrati prezzolati, pronti a colpire l’uno o l’altra, in realtà le cose non sono andate per quel verso e la rappresentazione che ne fanno i due è una fiction andata in onda prima della docuserie di Netflix.

Lo specchio li inchioda sempre, a ogni passo. Nella realtà e sullo schermo. Dal vivo è Pino che si arrampica su una ruspa perché solo lui, dopo le sue temerarie battaglie in tivù, può dare il primo colpo di martello meccanico alle stalle del boss Vito Vitale per buttarle giù.

In differita c’è la Saguto che si fa riprendere con una pistola in mano in un poligono di tiro, spara cinque colpi in rapida successione, cinque bersagli centrati. Una mira infallibile.

La certezza di essere portatori di verità li ha trasformati, ciascuno con il proprio stile, in kamikaze. Si sono mossi, nelle austere aule di tribunale e dallo scoppiettante pulpito di Telejato, senza mai calcolare le conseguenze delle loro azioni. Come se fossero prigionieri di un piccolo grande delirio di onnipotenza.

Il trolley e i cani uccisi

Una sera alla Saguto portano a casa un trolley con 20mila euro, è il suo amministratore giudiziario preferito – Gaetano Cappellano Seminara – che glieli consegna perché lei in banca ha i conti in rosso e non ce la fa a pagare nemmeno la collaboratrice domestica.

La replica è sfacciata: «Ridicolo: io che amministravo miliardi di euro me ne prendo 20mila che sono pari a un po’ più di due stipendi di un magistrato?». Un giorno a Maniaci uccidono i cani, Billy e Chérie, e glieli fanno trovare impiccati. Poco prima era stato minacciato dal marito della sua amica, sa perfettamente chi è l’autore del delitto ma si precipita in televisione per denunciare che «la mafia della cocaina lo vuole morto».

Mente sapendo di mentire ma il suo pubblico è in estasi. Sulla parete della redazione Pino ha una foto gigantesca di Giovanni Falcone. Ogni volta che Silvana Saguto racconta la sua vita non si dimentica mai di citare «Falcone e Borsellino che sono stati i miei maestri». Pino Maniaci e Silvana Saguto sono due tipici “prodotti” siciliani maturati, al sole forte dell’isola, dopo le stragi del 1992.

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