- Due sentenze, una in Sicilia, l’altra in Campania, arrivate nella stessa giornata consegnano una certezza a cui manca solo il bollino della Cassazione: l’Italia è quel paese che ha avuto nel governo la mafia e la camorra, come un narco stato qualunque.
- Questa è la verità giudiziaria che sta emergendo a distanza di anni dalla fine del ventennio di Silvio Berlusconi, a capo di esecutivi macchiati dagli scandali inclusi quelli che hanno coinvolto alcuni esponenti nominati nella squadra di governo. Non c’era solo Dell’Utri a fare gli interessi delle cosche.
- Ora è ancora più chiaro dopo queste due recentissime sentenze che hanno condannato, lo stesso giorno, Antonio D’Alì e Nicola Cosentino.
Due sentenze, una in Sicilia, l’altra in Campania, arrivate nella stessa giornata consegnano una certezza a cui manca solo il bollino della Cassazione: l’Italia è quel paese che ha avuto dentro il governo referenti della mafia e della camorra, come un narco-stato sudamericano. Questa è la verità giudiziaria che sta emergendo a distanza di anni dalla fine del ventennio di Silvio Berlusconi, che fu a capo di esecutivi macchiati dagli scandali a catena, inclusi quelli che hanno coinvolto alcuni esponenti nominati nella squadra di governo. Ora è ancora più chiaro dopo queste due recentissime sentenze che hanno condannato, lo stesso giorno, Antonio D’Alì e Nicola Cosentino.
Il primo, condannato a 6 anni in secondo grado, è stato il potente ras di Forza Italia in Sicilia, il suo feudo è a Trapani, ed ex sottosegretario al ministero dell’Interno, cioè l’ufficio che maneggia più di altri dossier delicati sull’antimafia. Il secondo, dieci anni la pena inflitta in appello, è di Casal di Principe, provincia di Caserta, è stata la punta di diamante del partito di Berlusconi in Campania, e poi sottosegretario all’Economia con delega al Cipe, la cabina di regia che decide come distribuire i fondi pubblici anche per le infrastrutture.
Ruoli delicati ricoperti da entrambi in due legislature. D’Alì è ha operato nei gangli vitali degli Interni per ben 5 anni, nel secondo e terzo governo Berlusconi, dal 2001 al 2006. Cosentino, invece, ha ottenuto il prestigioso incarico nell’ultimo esecutivo guidato dall’ex Cavaliere. Negli stessi anni su Forza Italia splendeva ancora la stella di Marcello Dell’Utri, nonostante i processi, i sospetti, le ombre della mafia siciliana che hanno accompagnato sia la sua carriera manageriale sia quella da consigliere politico dell’ex presidente del Consiglio. Dell’Utri, condannato definitivamente a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è uscito di prigione nel 2019, ma deve ancora affrontate il processo sulla trattativa stato-mafia al cui esito di primo grado ha ricevuto una condanna a 12 anni.
L’ispiratore e fondatore di Forza Italia, tuttavia, non ha mai ricoperto direttamente ruoli di governo. La sua specialità era quella di stare dietro le quinte del potere. D’Alì e Cosentino al contrario hanno scalpitato per accomodarsi sulle poltrone dell’esecutivo. Per i due ex sottosegretari le condanne non sono ancora definitive, si tratta di pene inflitti in appello, e quindi ancora suscettibili essere riformate. Per D’Alì la situazione è più complessa, perché si è trattato di un processo d’Appello bis, dopo che la corte di Cassazione aveva annullato i verdetti precedenti di assoluzione per i fatti avvenuti dopo il 1994 e di prescrizione per quelli antecedenti. Una formula che ricalcava la decisione presa nei processi contro Giulio Andreotti, i cui rapporti con Cosa nostra sono stati accertati fino al 1980, perciò prescritti e assolto per le contestazioni successive a quella data limite.
Messina Denaro
I magistrati di Trapani e poi della procura generale di Palermo, competente per i processi di appello, hanno accusato D’Alì aver avuto relazioni strette con la famiglia mafiosa dei Messina Denaro, ossia quella a cui appartiene l’omonimo Matteo, imprendibile latitante che da quasi 30 anni nessuna forza di polizia riesce ad acciuffare. Il referente di Berlusconi sull’isola, secondo l’accusa, ha «contribuito al sostegno e al rafforzamento di cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato». I pentiti che ne hanno inquadrato ruolo e rivelato contatti sono cinque. Per i pm «D’Alì con piena coscienza e volontà ha favorito cosa nostra per più di 20 anni».
Un tempo lunghissimo, che comprende anche la fase in cui il suo partito e lui erano al governo del paese. Ma c’è un fatto che neppure D’Alì può smentire: Francesco Messina Denaro, detto “Ciccio”, capo mafia intimo di Totò Riina e padre dell’attuale super latitante della mafia siciliana, è stato campiere nei terreni di contrada Zangara, di proprietà proprio della famiglia D’Alì. Una storia che ci riporta ad Arcore, nella villa di Berlusconi, che ha avuto come stalliere un boss palermitano del calibro di Vittorio Mangano. Mangano l’eroe, come lo definì Berlusconi per santificare l’attitudine del mafioso a non parlare con i magistrati, che cercavano indizi sul tesoro della mafia investito a Milano e dei possibili intrecci con l’ex presidente del Consiglio. D’Alì per favorire la mafia ha anche allontanato un prefetto sgradito alle cosche del territorio. E lo ha fatto, è la tesi dell’accusa, da sottosegretario al ministero dell’Interno, dunque ha agito quando era al governo con Berlusconi.
Il politico di Gomorra
Finita la lunga esperienza di governo, dopo la parentesi dell’Ulivo con Romano Prodi presidente del Consiglio, nel 2008 Berlusconi torna al potere, che formare il quarto esecutivo guidato da lui. Dell’Utri è già stato condannato in primo grado. Nella squadra scelta dall’allora Cavaliere non c’è più D’Alì, che comunque era stato nuovamente eletto in Senato, ma Nicola Cosentino, l’astro nascente del centrodestra campano. A lui toccherà il sottosegretariato all’Economia, con annessa una delega pesante: il Cipe, l’organo che delibera lo stanziamento dei fondi pubblici anche sulle infrastrutture. Ruolo delicato finito, di fatto, in mano al «referente del clan dei Casalesi», dicono le sentenze di primo e secondo grado che lo hanno condannato.
Il clan è un gruppo mafioso della camorra casertana al tempo meno noto di cosa nostra siciliana, ma reso celebre dal best seller Gomorra di Roberto Saviano, lo scrittore che vive sotto protezione per le minacce ricevute dai padrini di Casal di Principe, il regno di boss dai soprannomi evocativi: “Sandokan”, per esempio, al secolo Francesco Schiavone, uno dei fondatori della criminalità organizzata locale.
I primi verbali sui rapporti tra Cosentino e la camorra erano stati raccontati per la prima volta sull’Espresso nel 2009, che titolava «La camorra nel governo».
All’epoca le inchieste del settimanale si basavano sulle molteplici accuse di alcuni pentiti dei clan, che indicavano il sottosegretario come vero riferimento politico della famigerata associazione mafiosa. Ora ci sono le sentenze che certificano quel ruolo oscuro.
Cosentino ha garantito ai boss, nel suo ruolo di «concorrente esterno» alla camorra, innanzitutto la gestione della raccolta e dello smaltimento rifiuti.
Un passaggio che indica anche un’evoluzione nella strategia criminale delle cosche del territorio campano: i primi affari con la spazzatura la camorra li aveva infatti realizzati seppellendo illegalmente sotto terra tonnellate di rifiuti anche tossici per conto di aziende del Nord.
Erano gli anni Ottanta e Novanta. Poi il salto di qualità all’inizio del nuovo millennio con l’entrata nel business legale del settore.
Grazie all’appoggio dei suoi referenti politici, che all’epoca sedevano nientemeno che nelle prime linee del governo Berlusconi. La nuova sentenza dei magistrati napoletani ad oggi certifica l’infiltrazione sistemica. In attesa della Cassazione, l’ultima speranza per l’onore di quell’esperienza politica.
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