Pubblichiamo un estratto del libro “Niente di vero” di Veronica Raimo, edito da Einaudi, 2022.

Io e mio fratello siamo diventati tutti e due scrittori. Non so cosa risponda lui quando gli chiedono come mai, io dico che è grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri genitori.

Se mia madre era iperapprensiva, mio padre aveva una forma di paranoia più sottile. I suoi studi da chimico lo portavano a considerare il mondo un ricettacolo di agenti nocivi da cui bisognava costantemente proteggersi. Ovvero limitare il più possibile l’uscita di casa e asfissiarci tra quattro mura, che nel nostro caso erano cento.

Avevo otto anni quando ci fu l’esplosione del reattore di Černobyl′. La mia famiglia, anche quando l’emergenza sembrava rientrata, continuò a vivere in uno scenario da film postapocalittico fingendo che non abitassimo in una città relativamente benestante dell’Occidente, ma in una fantascientifica Zona X ad alto tasso di contaminazione.

In ogni plot catastrofista che si rispetti, quando il mondo è infetto, l’unica cosa importante è preservare i legami di sangue: la famiglia. Così per tre anni mio padre ci impedì di consumare frutta e verdura, uova, latte fresco, di andare a mangiare al ristorante o di comprarci un trancio di pizza per strada. L’unico cibo consentito erano prodotti in scatola confezionati prima del 26 aprile 1986.

Non era semplice attenersi al protocollo, ma devo confessare che la cosa aveva un suo fascino, mi faceva sentire un’eroina in uno stato di quarantena invisibile a tutti gli altri. Restare trincerata dentro il nostro appartamento bonificato a mangiare tonno e fagioli come i pionieri, inventare scuse improbabili quando andavo a fare i compiti a casa di una compagna di classe e mi veniva offerta la merenda, o monitorare al supermercato le date di confezionamento come fossero codici segreti riservati soltanto a noi eletti.

Alla fine ci ritrovammo tutti con un discreto deficit di vitamine e, nonostante mia madre ci drogasse di Be-Total e Co-Carnetina, nessuno di noi aveva una bella cera. Comunque eravamo sopravvissuti. Al massimo ce la saremmo vista con lo scorbuto.

Grazie alla ferrea educazione dei miei genitori, né io né mio fratello abbiamo mai imparato a fare quelle cose spericolate come nuotare, andare in bicicletta, pattinare, saltare alla corda (era un attimo annegare, spaccarsi il cranio, rompersi una gamba, finire impiccati).

Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro casa a romperci le palle. Era un’attività talmente intensa che presto divenne una posa esistenziale. Sapevamo annoiarci come nessun altro.

Nel cortile del palazzo c’erano sempre dei ragazzini che giocavano, i loro schiamazzi ci arrivavano come una lingua ferina a cui non avevamo accesso. Li spiavamo dalla finestrella, zitti, a luce spenta. Lasciavamo affiorare a turno qualche centimetro di faccia dal davanzale (non c’era posto per tutti e due) per poi riabbassarci di scatto se qualcuno dei ragazzini sollevava lo sguardo per inseguire la parabola di una palla in aria. Eravamo terrorizzati all’idea che potessero vederci perché un invito a scendere sarebbe stato impossibile da gestire. Due piccole spie asserragliate dentro casa.

Il brutto è che non riuscivamo nemmeno a percepirci così. Per dire, avremmo potuto trasformarlo in un gioco, «Aha! Non ci hanno visto!», il brivido di non essere scoperti, il commento tra chi fosse il più carino o la più carina del gruppo, almeno l’indolenza vibratile dei vecchi di fronte a un cantiere; invece niente, non eravamo altro che due bambini bravissimi a rompersi le palle.

Un giorno, nel nostro stato di clandestinità, ci toccò affrontare un atroce dilemma morale. I ragazzini nel cortile stavano giocando a pallone con un rospo. Sulle prime l’animale era stato semplicemente messo in mezzo, accerchiato, come lo sfigato di turno in una scenetta di bullismo adolescenziale. Il rospo aveva azzardato un paio di zompi, ma era chiaro che non aveva in testa alcun piano di fuga. Poi dal cerchio di gambe era partito il primo calcio. Avevano cominciato a palleggiarselo.

Dal nostro avamposto ci arrivavano più i gridolini scemi degli umani che l’impatto sonoro di una scarpa sulla scorza verrucosa della bestia, o il tonfo sull’asfalto quando qualcuno mancava il passaggio, però nella mia testa risuonava tutto. Io e mio fratello c’eravamo stretti la mano per l’infinita durata dello strazio. Credo che lui stesse pregando, lo sentivo biascicare delle litanie, anche se non si era fatto il segno della croce perché non gli mollavo la mano.

Io speravo solo che il rospo schiattasse al più presto e ci liberasse dall’agonia. Non potevamo fiatare. O meglio, avevamo deliberatamente scelto di non farlo. Pavidi e inetti, come sempre. Ecco, era da quello che cercavano di preservarci i nostri genitori? L’allegra scoperta del male nel cortile di casa? L’orrore, l’orrore!

Quando finalmente arrivò la scoperta dei libri, non fu una forma di evasione, piuttosto una rasserenante coalescenza di noia. Riuscivo quasi a visualizzarla, bianca e melmosa: leggere era come sprofondare in un acquitrino di latte. Restavo immersa per ore, fin quando pure il corpo si faceva flaccido, con l’acqua stagnante che penetrava nei pori. Sentivo che all’improvviso tutto acquistava un senso, un fenomeno di transustanziazione, la mia carne diventava noia.

Non sapevo dire se un libro mi piacesse. Non era mai stato quello il punto. Anzi, l’idea stessa che leggere potesse rivelarsi un piacere era completamente fuorviante. Perché crearsi quell’inutile rovello? C’era una cosa che la mia famiglia temeva più della nube tossica di Černobyl′: l’edonismo.


Veronica Raimo è nata a Roma nel 1978. Ha scritto i romanzi: Il dolore secondo Matteo (minimum fax 2007), Tutte le feste di domani (Rizzoli 2013) e Miden (Mondadori 2018), uscito in UK, Usa e Francia. Nel 2019 ha scritto il libro di poesie Le bambinacce con Marco Rossari (Feltrinelli). I suoi racconti sono apparsi su diverse antologie e riviste, sia in Italia che all’estero. Ha cosceneggiato il film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio. Si occupa di giornalismo culturale per diverse testate. Ha tradotto dall’inglese, tra gli altri: Francis Scott Fitzgerald, Octavia E. Butler, Ray Bradbury.

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