Gli allungano i contratti, i calendari, il numero di giocatori in rosa. Ma gli accorciano l’unico fattore che serve al successo: il tempo. Non ne hanno quasi più questi allenatori sempre sull’orlo dell’esonero. Vivono di immediatezza, sanno che la prossima potrebbe essere l’ultima. One match, one kill. Volevano un progetto pluriennale, un ciclo a lunga scadenza, una carriera schedulata. Invece hanno trovato una vita spericolata. De Rossi a Roma è durato quattro giornate.

Poi ciao ex capitan futuro: via «nell’interesse della squadra». Al Milan Fonseca è rimasto aggrappato alla panchina con le unghie di un derby vinto. Ma al suo alter ego dell’Inter, Simone Inzaghi, campione d’Italia, allenatore dell’anno, il derby perso è valso una pioggia di critiche. Anche Thiago Motta, neo profeta della pelota, è passato dalla beatificazione precoce al sarcasmo: son bastati tre pareggi con la Juve. C’è qualcosa che stona in questo calcio che ha accorciato tutti i gap temporali e che non ha più pazienza né fiducia nei suoi mentori.

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Lo specchio del tempo

Per trovare risposte ci si affida allora ai filosofi, quelli che sono capaci di farci riflettere. Ne scomodiamo uno per tutti: Pep Guardiola. Che disse: «Non importa quanti successi hai ottenuto in passato o meno. A volte hai bisogno di tempo». Era il 2017. L’esordio sulla panchina del City dell’anno prima non era andato granché, non aveva raggiunto gli obiettivi che tutti si aspettavano da lui.

A Manchester decisero di dargli altri minuti, altre partite, un anno ancora, insomma di allungargli la fiducia, e la vita: non lo cacciarono. Sono passate nove, lunghe stagioni e Pep è ancora lì. Ha vinto tutto. Bravo bello e fortunato questo Pep, ma non è roba per tutti. Anzi, per pochissimi in questa vita iperconnessa, fatta di scroll, di balletti su tik tok, di mi piace o non mi piace, pollice su o pollice giù, peggio che ai tempi dei gladiatori nel Colosseo. Tutto veloce, non c’è più tempo da perdere. E neanche tempo per perdere qualche partita, mentre si impara (e si insegna) a vincere.

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Lo sport non è diverso dal resto del mondo, anzi ne è specchio fedele: riproduce in cattività (un campo, un palazzetto, una palestra) tutto il buono e il cattivo della vita. E dunque anche lo sport è diventato ad altissima velocità: nei gesti e nei giudizi. Così oggi il tifo ha regole diverse, la visione dei match anche.

I ragazzi preferiscono gli highlights ai novanta più recupero di una partita. Uno studio (McKinsey/Nielsen) di qualche anno fa sull’Nfl riportava che in media il tempo di visione di una partita tra i millennials è sceso a 1h12’, un calo del 6% sui minuti guardati e dell’8% sulle partite viste. E per il calcio il New York Times ha proposto di passare al tempo effettivo di 60 minuti e al cartellino arancione per falli punibili con un’espulsione temporanea di 10 minuti, come nella pallanuoto. Lo scopo è tenere viva l’attenzione.

Il tifo è più maturo dei media

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Ma un rovescio della medaglia c’è, soprattutto nel calcio. E ci mostra un tifo paziente, maturo, che ha abbandonato le arene: nessuno chiede più la testa di un allenatore dopo una manciata di giornate.

Al massimo si fischia, perché anche il malumore è democratico. Per l’esonero c’è tempo. Le valutazioni, ha detto una volta Bielsa, «non devono essere fatte in base a ciò che si ottiene, ma in base a ciò che si merita. Se valuti solo in funzione di ciò che ottieni compi un grave errore di valutazione». Se i tifosi hanno la pazienza degli innamorati, sono invece i club, le dirigenze che hanno fatto investimenti e si aspettano un ritorno immediato.

E i media, che alimentano l’infelicità per una sconfitta. L’allenatore è sempre in bilico, al bivio, la sua panchina scotta, una corsa fino all’ultimo respiro, se perde oggi rischia. Dimenticando che le stagioni sono sempre più lunghe e che a volte servono programmi a lunghissima scadenza. La nuova Champions è un campionato bis. Juventus e Inter, poi, ne avranno fino a luglio con il mondiale per club. Avere tempo per mettere insieme un progetto può fare la differenza.

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