Sembra che lo smart working stia già scomparendo dal mondo del lavoro italiano, anche se l'83 per cento dei dipendenti vorrebbe continuare da casa. Il motivo: le insicurezze dei dirigenti.
- Dopo la fine del lockdown, molte aziende stanno richiamando in sede i dipendenti pur non essendoci necessità concrete che richiedono il lavoro in presenza
- Secondo diversi studi, lo smart working ha molti vantaggi, sia per quanto riguarda il benessere del personale, sia per l’azienda, che ne guadagna in produttività e può tagliare i costi
- La decisione di ritornare in ufficio dipende spesso da una visione conservatrice della gestione del personale con i dirigenti che vogliono avere i dipendenti sotto controllo visivo
- Mandateci le vostre storie di ritorno in ufficio a lettori@editorialedomani.it
Federica ha 26 anni e lavora in una grossa azienda di consulenza a Milano. Il nome è inventato, ma tutto il resto è vero. Ha passato due mesi di lockdown a lavorare da casa. Ora i suoi capi le chiedono di rientrare in ufficio alternandosi con i colleghi. “Il motivo non mi è ben chiaro. Faccio le stesse cose che avrei potuto fare da casa, eppure è evidente che, anche se i miei dirigenti non hanno parlato di obbligatorietà, almeno quattro giorni alla settimana li devo passare in ufficio”, dice.
Stessa situazione per Roberto, 28 anni, anche lui nel settore delle consulenze, ma a Roma: “Nella mail che ci è stata inviata dai piani alti si parla di ‘ripristinare al più presto la normalità’. Abbiamo ripreso perciò a incontrare i clienti di persona e i nostri capi spingono per farci tornare fisicamente in ufficio, anche se non c’è nessuna necessità pratica”.
Sembra che lo smart working si avvii a essere un lontano ricordo. Aziende dei settori più diversi stanno infatti procedendo a richiamare in sede i dipendenti. Eppure, chi è sfuggito alla propria scrivania non vorrebbe assolutamente tornarci: secondo uno studio della società di consulenza McKinsey condotto durante il lockdown su cinquemila lavoratori nel settore dei servizi, l’83 per cento degli intervistati vorrebbe continuare a lavorare da casa anche dopo la fine dell’emergenza. Il 90 per cento ha espresso un giudizio positivo o molto positivo sulla propria esperienza. I dipendenti hanno percepito una maggiore efficienza propria e dei colleghi e hanno anche riferito di aver notato una maggior soddisfazione dei clienti.
Ma ci sono vantaggi anche per le aziende. Il rapporto di McKinsey dice che le imprese avrebbero un grosso beneficio in termini di costi: oltre a poter mettere mano al patrimonio immobiliare e tagliare i costi legati alla mobilità e ai pasti, approfitterebbero di una maggior produttività e della flessibilità degli orari lavorativi.
Anche secondo uno studio di Marta Angelici dell’università Bicocca e Paola Profeta dell’università Bocconi lo smart working ha molti lati positivi per dipendenti e aziende: oltre a migliorare l’equilibrio tra vita privata e tempo dedicato al lavoro, contribuisce a ridurre la disparità salariale tra uomini e donne. Inoltre, per lo stesso compenso i dipendenti mettono uno sforzo maggiore nel lavoro, cioè sono più produttivi. Secondo le due ricercatrici, questo risultato dipenderebbe dalla maggiore autonomia nella gestione del tempo, con il taglio di quello dedicato a raggiungere il posto di lavoro e una migliore organizzazione delle giornate passate in casa.
Perché allora tanti dirigenti stanno spingendo per tornare in ufficio il prima possibile?
“C’è una grande necessità di controllo. Se posso vedere il dipendente sono certa che stia lavorando”, dice Paula Nocchi, psicologa esperta in gestione dei rischi legati al lavoro. Il lavoro in presenza rassicura i capi anche per quanto riguarda la concentrazione: “Non sono più presenti elementi di disturbo, come potrebbero essere considerati i figli o altre distrazioni, e il dipendente non ha la testa altrove”.
In numerosi casi si aggiunge l’incompetenza dei dirigenti per quanto riguarda il coordinamento a distanza. L’emergenza ha infatti acuito problematiche presenti già da tempo nel microcosmo dell’ufficio: sempre secondo il rapporto di McKinsey, il 64 per cento degli intervistati lamentava una scarsa preparazione del management nella gestione del lavoro.
Spesso, poi, i dirigenti fanno parte di una classe d’età più avanti negli anni, meno pronta ad abbracciare il lavoro smart. Dall’analisi di McKinsey emerge che il 25 per cento degli over 60 ha giudicato lo smart working un’esperienza negativa, una percentuale che si riduce all’8 per cento nella fascia d’età sotto i quarant’anni. Stesso discrimine per la percezione dell’efficienza propria e dei colleghi, che si rivela nettamente inferiore: se in media con il lavoro da remoto i dipendenti la vedono superiore di ben sei punti percentuali, per gli intervistati dai sessant’anni in su il vantaggio è pari a zero.
L’organizzazione aziendale arcaica di alcune aziende italiane ha prodotto una tempesta perfetta. La resistenza delle “vecchie guardie” al lavoro da remoto si combina con la riluttanza a demandare e quindi a responsabilizzare il dipendente. Per gestire questa tensione, l’unica soluzione è il rientro in ufficio di tutta la squadra.
Il rischio è che sia un’occasione persa per il mondo del lavoro italiano, dipendenti e aziende, di cui pagano le spese tutte le Federica e i Roberto che si ritrovano costretti in ufficio per svolgere mansioni che avrebbero tranquillamente potuto gestire da casa.
Come sempre, aspettiamo le vostre storie: scrivete a lettori@editorialedomani.it e raccontateci come avete vissuto il ritorno in ufficio (o meglio, se aveste preferito continuare a lavorare da casa). Anche stavolta, faremo del nostro meglio per darvi voce.
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