Come avviene abitualmente in occasione della divulgazione dei risultati di altre ricerche in ambito educativo, anche la pubblicazione dei dati dell’indagine internazionale sulla popolazione adulta Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) rischia di dare la stura a letture che addossano alla scuola l’intera responsabilità di risultati spesso negativi e che trascurano sia il peso esercitato dalle iniquità che caratterizzano il sistema economico e sociale sia l’inefficacia delle scelte politiche.

La ricerca, organizzata dall’Ocse e gestita per l’Italia dall’Inapp, è alla sua seconda edizione (la prima è del 2012). L’indagine si basa sulla somministrazione a un campione rappresentativo della popolazione tra 16 e 65 anni di prove standardizzate. Queste prove forniscono una stima delle abilità e delle conoscenze necessarie per comprendere un testo (literacy), per impiegare la matematica per orientarsi nel quotidiano (numeracy) e (da questa edizione) per affrontare problemi complessi (adaptive problem solving).

Come evidenziato nel rapporto italiano, il nostro paese si posiziona al di sotto della media Ocse nelle tre aree di indagine. Proviamo ad analizzare il dato iniziando dal confronto con la prima edizione.

Non stiamo migliorando

Spesso, la “retorica della crisi” – ovvero il sensazionalismo che accompagna la pubblicazione dei risultati delle indagini, incentrato sugli (innegabili) aspetti negativi – porta anche a trascurare una lettura longitudinale dei dati e a suscitare reazioni di pancia piuttosto che utili analisi. Come scritto, Piaac è alla sua seconda edizione e già nel 2014 Tullio De Mauro, nel suo libro Storia linguistica dell’Italia repubblicana, rendeva conto dei dati. Cosa è cambiato? Come rileva il rapporto Inapp, da noi nei due ambiti comuni alla prima e alla seconda indagine (literacy e numeracy) non si osserva alcuna variazione significativa. Questo dato è del tutto coerente con quello fornito da indagini (Invalsi, Ocse, Iea) relative ad altre fasce di popolazione. Piuttosto che parlare di “drammatico crollo nelle competenze” faremmo meglio a riflettere con maggiore lucidità su una preoccupante stagnazione.

Piaac conferma anche l’incidenza della distribuzione geografica (il Nord e il Centro meglio del Sud) e quella del retroterra sociale, culturale ed economico sui risultati (siamo tra i paesi in cui tale legame è più forte).

Più interessante il dato relativo al genere. Da questo punto di vista, non emergono differenze significative nella literacy e nel problem solving, mentre in numeracy la popolazione maschile se la cava meglio. Va considerato però che le indagini sulla popolazione adulta negli anni Novanta (Iea Ials) restituivano per il nostro paese un vantaggio degli uomini sulle donne anche nella comprensione del testo. Si tratta di differenze assai mobili nel tempo e tra i paesi, un dato che rappresenta un’ulteriore conferma della forza del contesto socio-culturale che sta alla base delle differenze nei risultati raggiunti da donne e uomini.

Il diplomato finlandese e i giovani

Un dato che ha suscitato interesse nell’opinione pubblica è quello relativo al fatto che in Italia mediamente chi raggiunge una laurea non se la cava meglio di chi in Finlandia possiede un diploma di scuola secondaria. Il dato però andrebbe letto considerando che, nel nostro paese, le persone con i titoli di studio più bassi, sebbene non se la cavino meglio di chi ha la laurea, mostrano livelli di conoscenze e abilità che rientrano nella media internazionale.

Questa dinamica va letta alla luce di quello che forse è il dato più interessante – e sin qui il più sottovalutato – di Piaac, ovvero quello relativo alla distribuzione di conoscenze e abilità per fasce d’età. Come nella prima edizione, le fasce d’età più giovani in Italia raggiungono punteggi superiori al resto della popolazione in misura più rilevante di quanto non avvenga in altri paesi.

Questo andamento mal si accorda con le teorizzazioni di un presunto decadimento nelle competenze delle giovani generazioni che sarebbe da imputarsi alla supposta affermazione della pedagogia progressista nelle nostre scuole. In realtà, il progressivo peggioramento del rendimento italiano in base all’età è coerente con quello riscontrato da altre indagini (gestite da Iea e Ocse) che indicano da decenni come la nostra popolazione di studenti della primaria se la cavi molto meglio nel confronto internazionale rispetto a quella di quindicenni.

Sul fronte della politica scolastica, il peggioramento che sembra verificarsi nelle scuole secondarie smentisce le scelte fatte sulla formazione docenti. Va considerato che i percorsi per insegnare alla primaria e per insegnare nelle scuole secondarie sono diametralmente opposti. Infatti, per insegnare nella scuola primaria è previsto un percorso dai tempi distesi (laurea magistrale di cinque anni), che consente di svolgere sia attività in università sia all’interno dei contesti scolastici.

Al contrario, la formazione di docenti per le scuole secondarie, anche e soprattutto nella sua ultima versione (i “60 cfu”), continua a incentrarsi su brevissime scorciatoie (meno di un anno) che portano a trascurare le attività pratiche a vantaggio di quelle on-line. Questi percorsi, tra l’altro costosissimi, più che dall’esigenza di sviluppare competenze disciplinari e metodologico-didattiche paiono dettati dall’urgenza di abilitare all’insegnamento molta gente in brevissimo tempo e dalla volontà di consentire alle università telematiche di esercitare un ruolo rilevante in quello che si configura come un vero e proprio mercato della formazione docenti.

A farne le spese saranno però migliaia di adolescenti. Siamo così di fronte all’ennesima offesa arrecata alla fascia più giovane della popolazione dalle generazioni più anziane, ovvero dalle generazioni che, a quanto pare, manifestano le maggiori difficoltà a comprendere il tempo presente.

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