De Coubertin era un visionario ma nei confronti delle donne e dei non bianchi certo non ha brillato di lungimiranza. Vedeva la vita da una prospettiva strettamente colonialista, tuttavia bisogna ammettere che è stato un genio. Con l’olimpismo ha fondato una filosofia di vita, per qualcuno quasi una religione. E di sicuro lo è per gli atleti di alto livello, i quali, fin da piccoli, si sono sentiti ripetere che, se fossero diventati bravi, sarebbero andati alle Olimpiadi.

Un po’ come a catechesi ti insegnano che se sei buono andrai in paradiso. Ecco, quando l’obiettivo della qualificazione olimpica si realizza, il primo pensiero di ogni atleta va alla cerimonia di apertura: una sorta di iniziazione universale che sancisce il passaggio allo status di appartenente al popolo degli eletti, quelli che entreranno nel paradiso a 5 cerchi.

Come ogni cerimonia che si rispetti, ha una lunga portata emotiva che inizia molto tempo prima con la fase della “vestizione”; per l’esattezza comincia quando gli olimpionici ricevono (di solito accade qualche settimana prima) il pacco con tutto il vestiario che dovranno usare durante l’esperienza olimpica. Non è l’euforia di chi riceve cose materiali (nonostante siano veramente tante).

No, è piuttosto qualcosa che assomiglia più alla gioia profonda, commossa di chi ottiene il riconoscimento di un merito, la soddisfazione di una fatica che ha compiuto la sua missione. È il momento in cui i 5 cerchi diventano un simbolo che porta anche la tua impronta personale. Tra i tanti indumenti del “pacco olimpico” c’è la divisa per la cerimonia, ma solo pochi tra gli eletti, potranno indossarla per l’occasione per cui è stata creata.

Un privilegio non da tutti

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La cerimonia di apertura è un evento lunghissimo. Alla durata degli spettacoli e delle ritualità previste si aggiungono molte ore di attesa trascorse prima della sfilata radunati in un luogo da cui, una alla volta, le delegazioni iniziano la processione; e dopo la sfilata altre ore vengono trascorse, spesso in piedi, in attesa delle procedure di evacuazione e dell’abbinamento delegazione/trasporti che riporti tutti al villaggio olimpico: cosa che normalmente avviene a notte fonda.

Per queste ragioni, chi arriva ai Giochi con buone possibilità di vincere una medaglia, e ha le gare a ridosso della celebrazione inaugurale, alla manifestazione non ci va. Anche volesse, sarebbero i tecnici (allenatori) a impedirglielo.

Fanno eccezione ovviamente i portabandiera, scelti tra coloro che già hanno vinto e che si spera potranno ancora farlo. Sono gli eletti tra gli eletti, gli imprescindibili chiamati ad aprire ordinatamente la fila che però, alle loro spalle, subito si scompone in balli, selfie, saluti. Non ci si aspetti da loro segnali di protesta rispetto alla situazione internazionale, e non perché gli atleti non abbiano una propria opinione, ma semplicemente perché non possono esprimerla: la rigida regola 40 della Carta Olimpica lo vieta espressamente.

Ma la gerarchia, se pur orizzontale, tra chi apre la fila e chi sta dietro salta nel momento più solenne, quando tutte le 205 delegazioni si fermano, l’una accanto all’altra, ad ascoltare il giuramento e a celebrare l’accensione del braciere.

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È quella la fase più intensa. È il momento del raccoglimento, della commozione e della fusione tra sfera personale e collettiva. È il momento del silenzio come lingua universale che racchiude la potenza di tutte le parole mai pronunciate. Un silenzio inverosimile creato da centinaia di migliaia di persone che quasi sembra un miracolo e che un miracolo potrebbe davvero generarlo.

A Parigi, sulla piazza del Trocadero, quando la fiaccola del fuoco sacro di Olimpia arriverà con l’ultimo tedoforo (o tedofora?) di un’infinita staffetta d’amore, nel silenzio, vorremmo sentire risuonare la potenza della parola “perdono” rivolta agli esclusi, a coloro che non si impegnano per inseguire i propri sogni, ma per cercare di sopravvivere.

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