Rieccoli. Il rugby e la partita che costrinse le Olimpiadi a perdere per strada un intero continente, il primo boicottaggio diffuso. Montreal 1976, l’Africa che se ne va. Tutta colpa di Sudafrica-Nuova Zelanda, che a Parigi anticiperà pure la cerimonia di apertura. Si giocherà mercoledì 24 luglio. E pure allora, nel 1976, era il 24 luglio quando andò in scena la sfida tra due delle grandi potenze rugbistiche mondiali. Un evento apparentemente fuori dalla scena olimpica, che ne segnò però profondamente la storia.

I paesi africani, infatti, insorsero per quella tournée che proprio nei giorni dei Giochi canadesi portò gli All Blacks nella terra dell’apartheid, dove la popolazione nera era esclusa da tutto, sport compreso. Il paradosso fu che quel giorno, a Durban, davanti a 46mila spettatori (tutti bianchi) giocarono anche cinque giocatori di etnia maori e un nativo della Samoa americana: sfruttarono una sorta di lasciapassare, la folle patente di «bianco onorario» gentilmente concessa dal governo razzista, che proprio qualche giorno prima aveva represso nel sangue la rivolta di Soweto.

Cosa accadde a Montreal

La richiesta partì dalla Tanzania e fu sottoscritta praticamente da tutto il continente, anche se alla fine Senegal e Costa d’Avorio decisero comunque di esserci. In una lettera al Cio, partì l’ultimatum: o buttate fuori la Nuova Zelanda, rea di intrattenere rapporti sportivi con il Sudafrica, o non ci vedrete in Canada alle Olimpiadi. Prendere o lasciare. Il Cio lasciò: l’alibi ufficiale fu il fatto che allora il rugby, a differenza di adesso, non era uno sport olimpico, non rientrando quindi direttamente nella giurisdizione dei Giochi. E poi ormai era troppo tardi, l’altra scusa.

Il prezzo pagato fu altissimo: 29 nazioni, 27 africane più Iraq e la Guyana sudamericana, rimasero a casa. Se non dimezzata, l’Olimpiade finì comunque per rimpicciolirsi. Un’anteprima di ciò che sarebbe accaduto quattro anni più tardi, con il boicottaggio occidentale dei Giochi di Mosca per l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e la “vendetta” del 1984, quando il blocco orientale – tranne la Romania – ripagò con la stessa moneta l’appuntamento di Los Angeles.

Tanta storia delle Olimpiadi è passata sotto i ponti da allora. Il Sudafrica-Nuova Zelanda di oggi è figlio di un altro mondo. Il rugby è da tempo tornato ai Giochi seppure nella versione “seven” e l’ovale non è più da anni il territorio di un’odiosa discriminazione razzista, piuttosto il simbolo di una riconciliazione nazionale guidata da Nelson Mandela e celebrata dalla grande vittoria, finalmente multietnica, in campo e sugli spalti, della squadra sudafricana alla Coppa del Mondo del 1995, quella raccontata dal film Invictus. Diciannove anni prima, proprio nel tempo della disgraziata tournée neozelandese, il leader dell’African National Congress era ancora detenuto nel carcere di Robben Island, dove a proposito di sport ogni giorno correva sul posto nella sua cella per 45 minuti. La sua personale Olimpiade.

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La scatola vuota della tregua

Insomma, l’incontro di mercoledì allo Stade de France sembra fatto apposta per sottolineare un passato ormai lontano e dirgli: mai più. Pure il palcoscenico, però, è ideale per incontrare qualche fantasma. È qui, in questo stesso impianto che nel giorno della strage del Bataclan, il 13 novembre del 2015, tre esplosioni minacciarono l’amichevole Francia-Germania sfiorando un’altra strage. Un ricordo che fa pensare alle tante preoccupazioni per la sicurezza che assediano i Giochi di Parigi ormai alle porte. Che si combinano con altri punti interrogativi, perché non è possibile dire agli inferni di Kiev e di Gaza di farsi due settimane più in là.

La tregua olimpica negli anni è stata sostanzialmente una scatola vuota. E così, l’Olimpiade parigina, che avrebbe dovuto celebrare il ritorno delle porte aperte dopo il deserto causa Covid degli spalti dei Giochi giapponesi di tre anni fa con tanto di cerimonia di apertura sulla Senna all’insegna di una socialità riconquistata, diventa una specie di acrobazia. Il Cio si è inventato uno slalom che ha consentito di ridurre e spersonalizzare la presenza della Russia, senza inno, senza bandiera e con una partecipazione molto contenuta, ma gli atleti ucraini – che avrebbero voluto un divieto totale di partecipazione – hanno come consegna quella di evitare qualsiasi contatto con i loro colleghi del paese invasore. Meglio una multa, persino una squalifica, che una stretta di mano. Quanto al Medio Oriente, l’ipotesi che atleti di alcuni paesi arabi si rifiutino di competere con i loro rivali israeliani nonostante il rischio di sanzioni, è messa ampiamente in conto. Per gli otto atleti palestinesi che gareggeranno, parole del loro presidente del comitato olimpico, la partecipazione ai Giochi è «una forma di resistenza».

Certo il 1976 del boicottaggio africano è temporalmente e geopoliticamente lontano. Qualcuno ci legge ancora, in un mondo dominato dalla guerra fredda e dal conflitto nazionalista a base di medaglie, la longa manus della Cina in chiave anti Urss/Usa nella spinta dei paesi africani verso la rinuncia, Cina che allora era addirittura fuori dal mondo olimpico (sarebbe tornata ai Giochi nel 1984) e che oggi è invece una potenza olimpica a tutti gli effetti nel senso sportivo (seconda dietro gli Stati Uniti nel medagliere tre anni fa), organizzativo (due Olimpiadi a Pechino in 16 anni) e commerciale (il Cio ha anche sponsor cinesi).

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Il buio e la speranza

Le Olimpiadi avevano già perso la loro innocenza nei giorni della sanguinosa repressione degli studenti a Città del Messico poco prima del via dei Giochi del 1968, e con l’attentato terroristico di “Settembre nero” contro la squadra israeliana nel Villaggio Olimpico di Monaco quattro anni più tardi, attentato che sarà ricordato anche a Parigi ma in una località e in una data riservata proprio per ragioni di sicurezza. Tragedie che consegnarono il testimone alle edizioni buie dei boicottaggi.

Un tunnel da cui però l’olimpismo riuscì miracolosamente a uscire provando a ritrovare la sua funzione pacificatoria come dimostrò la sfilata unita delle due Coree nei giorni olimpici invernali di Pyeongchang 2018, accompagnata dalla famosa diplomazia del taekwondo per far parlare almeno un po’ il Nord e il Sud della penisola. O ancora la nascita del Refugee Olympic Team, una selezione di atlete e atleti (a Parigi saranno 37) rappresentanti dei 120 milioni di rifugiati costretti a vivere lontani da casa per scappare da fame e guerre.

Dunque, veri e propri esercizi di equilibrismo diplomatico all’insegna di un olimpismo che non può ignorare i guai del mondo, ma tenta di non esserne completamente sopraffatto. D’altronde pure la Carta Olimpica è in qualche modo un tentativo di comporre un dilemma di difficile, se non impossibile soluzione. Da una parte la difesa dei «diritti umani riconosciuti internazionalmente» e dei «fondamentali principi etici», dall’altra il divieto di ogni «dimostrazione o propaganda politica, religiosa o razziale in qualsiasi sito, sede o altre aree olimpiche».

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Di nuovo il camminare su un filo. L’illusione di una sorta di neutralità universale delle Olimpiadi coniugata con la sua condizione di specchio del mondo, in qualche modo di illustratrice della sua storia. Un connubio saltato per aria anche di recente con le porte chiuse (ma non del tutto chiuse) alla Russia che invade l’Ucraina. Il tentativo di disegnare un confine oltre il quale non si può andare, permanentemente in movimento. Insomma, lo sport «ha il potere di cambiare il mondo» come diceva proprio Nelson Mandela o deve semplicemente accontentarsi di fotografarlo nel suo bene e nel suo male?

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