- La capitana spagnola del nuoto sincronizzato, una fra le più medagliate nella storia della sua specialità, aveva avuto rassicurazioni di poter portare con sé il figlio Kai (1 anno ad agosto). Ma poi le restrizioni anti-Covid poste dagli organizzatori locali l’hanno costretta a compiere una scelta difficilissima.
- Diventata un’icona del diritto alla maternità per le atlete, nei mesi scorsi il suo impegno è stato celebrato con un documentario prodotto da Rakuten, che ne ha definitivamente elevato il profilo al rango di icona del diritto alla maternità e della parità di genere.
- Il post di denuncia pubblicato su Instagram è diventato virale e si propone già come una medaglia di latta da assegnare agli organizzatori, incapaci di rendere agibile un diritto basico della persona.
Alla gamma delle accuse rivolte contro Tokyo 2020+1 ne mancava giusto una relativa alle discriminazioni di genere. E allora ecco che la serve Ona Carbonell, capitana della nazionale spagnola di nuoto sincronizzato. Che a pochi giorni dalla cerimonia inaugurale ha denunciato di essersi vista negare dagli organizzatori il diritto a portare con sé in Giappone il figlio Kai (compirà un anno il prossimo agosto), a cui per questo motivo non potrà essere somministrato l'allattamento materno.
Una decisione, quella degli organizzatori, motivata dalle restrizioni anti-pandemia. Ciò che però non basta per essere messi al riparo dalle accuse d'insensibilità e inopportunità. Tanto più che, da un anno a questa parte, Carbonell è diventata un'icona dell'affermazione del diritto alla maternità per le sportive d'alta competizione e ha fatto della propria figura uno spot vivente del «Sì, se puede». In termini di comunicazione, gli organizzatori hanno dimostrato una mira straordinaria nella scelta di questo nuovo nemico.
La negata conciliazione
Il caso esplode martedì 19 luglio, quando attraverso l'account Instagram che vanta 247mila follower la campionessa spagnola posta un video in cui si lascia riprendere mentre allatta il piccolo Kai. Durante i 2 minuti e 37 secondi del video, accompagnato dal titolo “Giochi Olimpici e conciliazione familiare”, Ona Carbonell ricapitola i termini della vicenda e inchioda gli organizzatori.
Racconta che, dopo avere avuto la certezza di essere in uno stato di forma adeguato alla partecipazione ai Giochi, aveva avanzato richiesta di chiarimento sulla possibilità di portare con sé Kai al villaggio olimpico, per poter continuare a allattarlo. Aggiunge di avere creato un network di atlete attorno al tema, perché fosse chiara l'esigenza che nessuna atleta si trovasse davanti al bivio della scelta fra la maternità e l'impegno agonistico. In un primo tempo la risposta era stata positiva. Ma con l'approssimarsi dell'inaugurazione di Tokyo 2020, aggiunge Carbonell, è giunta un'indicazione di senso opposto.
Appellandosi alle indicazioni sanitarie imposte dal governo giapponese, gli organizzatori locali hanno dato indicazioni che il piccolo Kai e il compagno di Ona (l'ex ginnasta Pablo Ibáñez) debbano sistemarsi in hotel, per di più senza che si sappia quale fino al momento di mettere piede a Tokyo. Separati da Ona e con l'ordine di non spostarsi da lì. Quanto alla mamma-atleta, una soluzione del genere la costringerebbe a fare la spola fra il villaggio olimpico e l'hotel per riuscire a allattare Kai. Un programma di estremo disagio, non compatibile né con la concentrazione che si deve alla preparazione di una prova olimpica, né con le elementari esigenze di vivibilità di Pablo e Kai.
Sicché a Ona non rimane da fare altro che lanciare l'accusa pubblica. Il gender gap continua a essere un'emergenza nello sport e la pandemia pone condizioni che lo aggravano. E il clamore che la denuncia ha suscitato finisce per essere l'ennesimo spot alla rovescia per i Giochi di Tokyo. Quale che fosse la scelta di Ona, per gli organizzatori (non averla ai Giochi per mancata rinuncia all'allattamento, o averla con rinuncia all'allattamento) si sarebbe trattato comunque di una figuraccia. Infine l'atleta ha scelto per la seconda ipotesi.
Un'icona della parità di genere
Si diceva del talento mostrato dagli organizzatori nella scelta dei nemici. Il caso di Ona Carbonell ne è una conferma. Si tratta di un'atleta dal profilo pubblico a tutto tondo. Leader della nazionale di nuoto sincronizzato, si è specializzata in questa disciplina all'età di 10 anni dopo avere praticato ginnastica ritmica.
Classe 1990, nativa di Barcellona, vanta un palmares impressionante: 23 medaglie mondiali. Nel mondo del nuoto soltanto Michael Phelps (33 medaglie) e Ryan Lochte (27 medaglie) hanno fatto meglio di lei, che però alla lista dei successi aggiunge 2 medaglie olimpiche di squadra e di duo a Londra 2012 e 12 titoli europei, ciò che porta a 37 il totale dei successi. Ma soprattutto, Ona ha fatto di se stessa e del proprio corpo i protagonisti di una sfida per il diritto alla maternità.
Nei mesi scorsi la sua sfida è stata celebrata in un docupic confezionato da Rakuten Tv (“Ona Carbonell. Un nuovo inizio”). E in tutte le interviste rilasciate a margine della pubblicazione del documentario l'atleta ha insistito sul fatto che il rapporto fra sport di alta competizione e maternità continui a essere un tabù. Non immaginava di dover essere vittima di quel tabù, di lì a poche settimane. I Giochi partono già mettendo a segno una mortificante sconfitta. E per gli organizzatori arriva la prima medaglia. Di latta.
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